Nezouh è cinema che esplora con brioso rispetto la dimensione drammatica della guerra in corso in Siria volontariamente senza spiegoni
Niente luce e acqua potabile. Cibo che scarseggia. Muri crepati e tutt’attorno solo macerie. Una famigliola – padre, madre, figlia – di Damasco in Siria decide di rimanere nel proprio appartamento sotto i bombardamenti della guerra per non finire tra le fila dei rifugiati, fino a quando una granata distruggerà e divorerà vetri e finestre della casa, e creerà un buco nel soffitto della camera da letto della quattordicenne Zeina (Hala Zein). Nulla c’entra in Nezouh – dal 12 gennaio al cinema – la metafora illuminata e cinefila di Tsai Ming-Liang. Il buco che si crea, in una sorta di parete di quinta, nell’opera seconda delle regista Soudade Kaadan simboleggia l’altrettanto salvifica speranza di un altrove gioioso e impossibile, oltre un destino di distruzione e di morte.
Tra realismo magico e schegge reali di bombe esplose, Nezouh è cinema che esplora con brioso rispetto la dimensione drammatica della guerra in corso in Siria (volontariamente senza spiegoni) ruotando la macchina da presa in una plastica prolungata steadycam in interni e lasciando che la fantasia di Zeina, sballottata tra i bisticci del padre tuttofare e della madre intenta a distanziarsene radicalmente, ricostruisca un immaginario di fuga (il mare e il cielo stellato che si animano) e una via possibile di uscita dalla città assediata. Forse non tutti i blocchi narrativi corrono allo stesso ritmo (l’esterno nel finale zoppica dopo quella densa teatralità d’interni), ma Nezouh rimane un’esperienza visiva potente e inusuale, in cui il facile pietismo lascia spazio alla somiglianza tra normalità di una famiglia occidentale in tempi di pace e ad una un po’ più orientale in tempi di guerra. Con i magneti sul frigorifero, l’iPad che non si collega e l’olio a sfrigolare nel tegame, Zeina e famiglia sono geograficamente e storicamente più vicine di quanto crediamo.