Vi chiedo una cortesia: se volete commentate pure questo mio intervento ma fatelo, vi prego, a bassa voce. Non picchiate con rabbia i tasti con le vostre opinioni o critiche ma lasciate piuttosto scivolare le dita come fanno ora le mie, agili e silenziose nell’accarezzare le lettere come quelle del pianista Novecento su ebano e avorio tra le onde dell’oceano. Il mio piccolo, adorato, dolcissimo figlio dorme di là, e ho solo questo spicchio di ora notturna, appena passata la mezzanotte, per scrivere senza svegliarlo.

Da quando Jonah Ettore si è presentato da noi dieci mesi fa, per insegnarmi che il cuore non è solo un muscolo nascosto nel torace ma un contenitore infinito di risate e amore, sono rimasti comprensibilmente pochi i momenti che non voglia dedicare, quando terminano le necessità del lavoro e di altre inevitabili scocciature, alla scoperta del suo incredibile mondo. E ancora meno sono le occasioni rimaste per la scrittura e per le attività varie che precedentemente ruotavano intorno alla passione per la birra, alla base di queste mie pagine: viaggi, visite a produttori e pub, assaggi e bevute con gli amici, festival e eventi vari, letture, approfondimenti, oltre a intere mattinate, pomeriggi e notti a elaborare ricette, brassare e imbottigliare birra fatta in casa.

Sono riuscito a partecipare lo scorso ottobre a Roma a “Eurhop”, uno dei più importanti eventi italiani dedicati a malto e luppolo, perché in quei giorni mia moglie e mio figlio erano in Inghilterra a visitare la famiglia. In un’edizione particolarmente ricca e partecipata, la prima dopo le chiusure per Covid, ho passato due giorni a degustare ottime pinte servite nel Salone delle Fontane dell’Eur, ma non vedevo l’ora che il mio cellulare vibrasse per scappare fuori a videochiamare verso Londra.

E proprio a Londra, la scorsa estate, ho incontrato Jamie, un amico dei tempi trascorsi al “White Horse on Parsons Green”, l’iconico pub in zona Chelsea. Mentre gustavamo in taproom le creazioni dell’eccellente birrificio “Sambrook’s”, mi ha raccontato con entusiasmo del suo progetto “Beer Dad”: che, come il nome suggerisce, riunisce in un’idea la nostra passione con la nuova, comune condizione familiare. Anche Jamie è diventato da poco padre, e forte della sua conoscenza e esperienza del settore brassicolo britannico e internazionale ha selezionato le etichette per creare pacchi specifici destinati a ogni tipo di genitore. C’è la scelta di bottiglie senza alcool (sacrosante quando l’insonnia dei primi denti e delle coliche ti abbatte tutte le energie), c’è il cartone per il babbo vecchio stile (con la mia predilezione per bitter, mild e old ale io ricado certamente in questo gruppo), ci sono le ultime frontiere dello sperimentalismo artigianale o il pacco per il lavoratore che la sera vuole solo rilassarsi. Mi piace sottolineare che “Beer Dad” destina l’1% di tutte le vendite effettuate sul sito in beneficienza alle attività del Great Ormond Street Hospital, il primo ospedale pediatrico a aprire in Regno Unito.

Ritornando in Italia, non potrei pensare a un posto migliore per condividere la mia nuova esperienza, tutti i dubbi e le gioie che mi attendono, del “Bar Papà”. È un bar particolare, dove magari non troverò un bancone e una birra fresca per accompagnare le chiacchiere, ma avrò al mio fianco papà come me, pronti a raccontare le proprie avventure di genitori e ad ascoltare quelle degli altri. “Bar Papà” è infatti “la più grande community di papà blogger in Italia”: un luogo dove si raccontano “storie maschie corrette al latte”, come recita il sito. Non solo: tra le tantissime iniziative portate avanti dal progetto figura anche uno sportello di assistenza legale e psicologica per padri divorziati o che stanno affrontando questo difficile percorso. A oggi più di 250 padri sono già stati aiutati dallo sportello, mi segnala Patrizio Cossa, altro amico e ideatore del Bar Papà, oltre a essere autore, scrittore, attore ma soprattutto padre.

Ancora nessun rumore dalla camera da letto, continuo a guardarmi attorno, a ricercare equilibri e legami tra birra e paternità. Sapevo già che Teo Musso, visionario apripista del movimento artigianale italiano con “Baladin”, aveva celebrato a suo modo la nascita dei figli dedicando loro due etichette, Isaac e Wayan. Non conoscevo invece l’origine del nome di uno dei più grandi gruppi industriali del settore: il danese Carlsberg si compone infatti di due parti, dove la seconda storpia leggermente il lemma “bjerg”, collina, per ricordare il luogo nei dintorni di Copenaghen dove il primo stabilimento sorse, mentre Carl era il nome di battesimo del figlio del fondatore Jacob Christian Jacobsen.

Ci siamo quasi, è ora di andare a dormire: voglio essere riposato domattina per riuscire a dare il massimo a mio figlio. L’ultimo aneddoto che trovo in rete, e che decreta con la sua superficialità che è davvero venuto il momento di chiudere tutto e entrare in punta di piedi in camera, mi dice che il fratello di Matthew McConaughey, tale Rooster, anch’egli attore sebbene meno famoso, ha battezzato suo figlio con il nome della sua birra preferita, Miller Lite, allungando per vezzo la prima i in una y. E che per ricompensa è stato premiato dalla casa produttrice con la fornitura per un anno delle sue amate lattine.

Incredibile, vero Jonah? Mi sdraio al tuo fianco, controllo il respiro regolare e poi chiudo gli occhi, immaginando già i viaggi che faremo assieme o le risate che esploderanno all’unisono. Quando sarai abbastanza grande magari ci sarà anche una birra, ma sarà soltanto una piccolissima cosa tra le milioni che ci tengono uniti.

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