L'operazione dei carabinieri del Ros ha portato alla cattura del capomafia di Castelvetrano, ricercato dall'estate 1993. Si trovava nella struttura in pieno centro dove era sottoposto a terapie da oltre un anno
Matteo Messina Denaro, l’ultimo superlatitante di Cosa nostra, è stato arrestato questa mattina, lunedì 16 gennaio, mentre era in day hospital alla clinica Maddalena, in pieno centro a Palermo. Era ricercato dall’estate del 1993. Lo storico arresto è stato compiuto dai carabinieri del Ros dopo 30 anni di latitanza: più di cento uomini questa mattina hanno accerchiato la struttura e assediato la zona di San Lorenzo. Il blitz è scattato intorno alle 9 con tutti i militari a volto coperto: Messina Denaro è stato arrestato mentre era all’ingresso prima di cominciare la terapia. “Come ti chiami?”, gli hanno chiesto i carabinieri. “Sono Matteo Messina Denaro”: sono state queste le prime parole del boss.
Urla di incoraggiamento e applausi nei confronti dei carabinieri da parte di decine di pazienti e loro familiari hanno accompagnato l’arresto. L’inchiesta che ha portato alla cattura del capomafia di Castelvetrano (Trapani) è stata coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e dal procuratore aggiunto Paolo Guido. Dopo il blitz, l’ormai ex superlatitante è stato trasferito in una località segreta. Messina Denaro un anno fa era stato operato e da allora stava facendo delle terapie in day hospital nella clinica privata, una delle più note di Palermo. Nel documento falso esibito ai sanitari c’era scritto il nome di Andrea Bonafede. Il boss si era recato nella clinica privata dove è stato arrestato “per sottoporsi a terapie“, spiega il comandante del Ros dei carabinieri Pasquale Angelosanto dopo l’arresto del boss compiuto dagli uomini del raggruppamento speciale assieme a quelli del Gis e dei comandi territoriali. Insieme a Messina Denaro, è stato arrestato anche uno dei suoi fiancheggiatori: Giovanni Luppino, di Campobello di Mazara, accusato di favoreggiamento. Avrebbe accompagnato il boss alla clinica.
I segnali – L’ultima “primula rossa” di Cosa Nostra, 60 anni, si era reso irreperibile subito dopo la cattura di Totò Riina, avvenuta proprio trent’anni fa. E mentre la polizia scientifica si incaricava di aggiornare, invecchiandola, l’immagine giovanile del boss il suo impero miliardario veniva pezzo per pezzo smontato e sequestrato. È così che è stata smantellata la sua catena di protezione e di finanziamento. Pochi mesi fa, a metà novembre, Il Gazzettino aveva riportato le dichiarazioni di Salvatore Baiardo, l’uomo che ha gestito la latitanza dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano in Nord Italia. Baiardo aveva dichiarato che Messina Denaro era gravemente ammalato. È del settembre scorso invece l’arresto di 35 persone, ritenute fiancheggiatori del boss. Tra queste anche Francesco Luppino, considerato uno dei “fedelissimi” di Matteo Messina Denaro. Una settimana fa, invece, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi aveva dichiarato: “Auspico, per giustizia nei confronti delle vittime, che venga preso. Confido nelle forze di polizia e magistratura”.
I segreti delle stragi – Nato a Castelvetrano nell’aprile del 1962, sull’ultimo superlatitante di Cosa nostra sono stati scritti centinaia di articoli, decine di libri, informative d’indagine lunghe migliaia e migliaia di pagine. Per il suo arresto, negli anni, sono stati impegnati centinaia di uomini delle forze dell’ordine. Messina Denaro era l’ultimo boss mafioso di “prima grandezza” ancora ricercato. Una latitanza record come quella dei suoi fedeli alleati Totò Riina, sfuggito alle manette per 23 anni, e Bernando Provenzano, riuscito a evitare la galera per 43 anni. Era soprattutto l’unico boss rimasto in libertà a conoscere i segreti delle stragi. Nei più gravi fatti criminali degli ultimi trent’anni, a cominciare dagli attentati del ’92 in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, è stata riconosciuta la sua mano. Da Riina ai fratelli Graviano, passando per Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e poi anche Bernardo Provenzano, tutti gli uomini della piovra che hanno attraversato quel biennio di terrore erano però già finiti, in un modo o nell’altro, in carcere. Tutti tranne lui, fino ad oggi.
Un fantasma da 30 anni – Figlio del vecchio capomafia di Castelvetrano (Tp) Ciccio, storico alleato dei corleonesi di Totò Riina, Messina Denaro era appunto latitante dall’estate del 1993. Quando diventa un fantasma ha da poco superato i trent’anni e in una lettera scritta alla fidanzata dell’epoca, Angela, dopo le stragi mafiose di Roma, Milano e Firenze, preannuncia l’inizio della sua vita da ricercato. “Sentirai parlare di me – scrive, facendo intendere di essere a conoscenza che di lì a poco il suo nome sarebbe stato associato a gravi fatti di sangue – mi dipingeranno come un diavolo, ma sono tutte falsità”. Attento a gestire la sua latitanza, e a proteggerla con una schiera di fiancheggiatori, uno dei boss più ricercati del mondo aveva lasciato di sé solo l’immagine di un implacabile playboy con i Ray Ban, le camicie griffate e un elegante casual. E dietro questa immagine ormai scolorita una scia di leggende: grande conquistatore di cuori femminili, patito delle Porsche e dei Rolex d’oro, maniaco dei videogiochi, appassionato consumatore di fumetti. Di uno soprattutto: Diabolik, da cui ha preso in prestito il soprannome. Un altro ancora glielo hanno affibbiato i suoi biografi “‘U siccu“: testa dell’acqua, cioè fonte inesauribile di un fiume sotterraneo.
Le condanne – Il padrino di Castelvetrano si è sempre mosso tra ferocia criminale e pragmatismo politico. Per questo è stato considerato l’erede di Bernardo Provenzano ma soprattutto del padre don Ciccio, altro boss della nomenclatura tradizionale morto da latitante nel 1998. Quando il vecchio patriarca scomparve, del giovane Matteo si erano perse le tracce già da cinque anni, nel 1993, prima ancora che fosse coinvolto nelle indagini sulle stragi di quegli anni. Il “fantasma” di Messina Denaro era inseguito da una montagna di mandati di cattura e di condanne all’ergastolo per associazione mafiosa, omicidi, attentati, detenzione e trasporto di esplosivo. Il capomafia trapanese è stato condannato all’ergastolo per decine di omicidi, tra i quali quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito strangolato e sciolto nell’acido dopo quasi due anni di prigionia, per le stragi del 1992, costate la vita ai giudici Falcone e Borsellino, e per gli attentati del 1993 a Milano, Firenze e Roma.