È stato immediato paragonare l’invasione della Piazza dei tre poteri a Brasilia l’8 gennaio con l’assalto al Campidoglio degli Stati Uniti il 6 gennaio 2021. La dinamica è simile, le azioni sono state aizzate via social dai sostenitori di Donald Trump negli Usa e di Jair Bolsonaro in Brasile, dietro il quale ha agito l’imprenditoria dell’agro business.

Soltanto dieci anni fa il Brasile sembrava avviato a recitare un ruolo di primo piano nell’economia mondiale. Gli esiti sociali di otto anni (2003-2011) della presidenza di Luis Ignàcio Lula del Partito dei Lavoratori hanno visto uscire dalla povertà quasi quaranta milioni di persone. Questa fase è stata accompagnata da politiche di accesso all’istruzione verso i meno abbienti, unitamente a campagne culturali volte a superare l’impianto razzista della struttura di potere del Brasile. Un successo al punto che la rivista “Veja”, nell’aprile del 2011, osservava che su 27 formazioni politiche presenti in Brasile nessuna si dichiarava apertamente di destra, tanto appariva impopolare questo richiamo.

Terminati i due mandati presidenziali di Lula è subentrata Dilma Rousseff, sempre del Partito dei lavoratori, ma si è trovata a dovere affrontare il peso della recessione economica che ha reso più evidenti i difetti strutturali del sistema produttivo (scarsa competitività, bassi saggi di risparmio, debole protezione dei creditori) al quale è seguito l’arresto di un percorso di integrazione, scontentando buona parte del suo bacino elettorale che chiedeva di migliorare i servizi sociali e denunciava le speculazioni legate ai Mondiali di calcio del 2014 e alle Olimpiadi del 2016.

Allo spegnersi della stagione riformista sono seguite le accuse di corruzione che hanno investito Dilma Rousseff (costretta ad abbandonare la presidenza) e Ignàcio Lula accusato nel 2016 di avere ricevuto tangenti dalla compagnia di petrolio brasiliana Petrobras. Un’accusa dalla quale Lula esce assolto, ma che gli costa quasi due anni di prigione. La sua incriminazione è stata costruita con prove false – sulla quale si è espresso anche il Comitato per i diritti umani dell’Onu – e il giudice Sergio Moro che ha condannato Lula in primo grado è poi salito alla carica di ministro della Giustizia durante la presidenza del nazionalista Jair Bolsonaro (2019-2022).

L’assalto ai palazzi del potere di Brasilia viene da lontano, dalla mancata accettazione della destra autoritaria di confrontarsi lealmente con i suoi antagonisti. Il mandato di Bolsonaro ha riportato alla luce anche forze e modi di agire che apparivano definitivamente superati, a partire dalla nuova centralità assegnata ai militari che avevano gestito una delle più lunghe dittature del Sud America dal 1964 al 1985. L’appoggio della classe imprenditoriale aveva consentito la longevità di quel regime, rimosso o ricordato con imbarazzo. Bolsonaro ha sostenuto il potere militare definendolo l’asse della democrazia brasiliana dotando, al contempo, il ministero della Difesa di enormi mezzi, aumentando le paghe dei militari e lavorando per la politicizzazione dell’esercito il cui potere, alla fine del 2022, è risultato accresciuto, al punto che Lula ha dovuto insediare alla Difesa José Mucio, uomo vicino agli ambienti militari, per non accrescere l’ostilità dell’ambiente verso il nuovo governo, ma Mucio è ora considerato troppo tiepido dinanzi all’eversione.

Le complicità della polizia verso i manifestanti appaiono evidenti e, salendo nelle gerarchie, colpisce il piano di emergenza elaborato dallo staff di Bolsonaro per evitare la salita al potere del rivale: ne esce a pezzi la società brasiliana e la legittimità democratica nel Paese. Non basteranno le condanne dei responsabili e la via giudiziaria non sarà la strada principale per riallargare consenso e mentalità democratica. Occorre ricreare quel clima di opportunità verso il riscatto e l’ascesa sociale che aveva caratterizzato i due mandati di Lula, senza dimenticare di garantire l’efficienza del sistema economico nell’equità; occorre ridare speranza, ora che una fetta di speranza sembra stata appaltata dalle influenti chiese pentecostali che hanno offerto il nutrimento ideologico alla retorica di Bolsonaro.

Le indebitate casse dello Stato e la sfavorevole congiuntura economica non depongono a favore del lancio di un nuovo progetto sociale, ma dall’emergenza può nascere una nuova consapevolezza che permetta di uscire dall’instabile equilibrio nel quale il sistema democratico brasiliano è caduto.

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