Nel centenario della nascita di don Lorenzo Milani esce la prima biografia ragionata e aggiornata: Don Milani. Vita di un profeta disobbediente (350 pagg., 26 euro), di Mario Lancisi, edita da TerraSanta Edizioni. Tra i più esperti biografi di don Milani, l’autore, giornalista e scrittore, ne traccia il ritratto attingendo a nuove lettere, scritti e testimonianze tra le quali spiccano quelle esclusive di Adele Corradi, insegnante a fianco del sacerdote negli ultimi anni della sua vita negli anni più avvincenti della Scuola di Barbiana, e di Francuccio Gesualdi, che con il fratello Michele ha vissuto per tredici anni in canonica con il priore. Il libro sulla straordinaria vita di don Milani racchiude oltre mezzo secolo di studi milaniani e racconta l’interesse dell’autore per il priore di Barbiana. Interesse nato da una bocciatura scolastica, quella dell’autore, che, figlio di una famiglia poverissima, viene respinto e posto così davanti al bivio se proseguire gli studi o abbandonarli per andare a lavorare. “La Lettera esprimeva tutto quello che io sentivo dentro – racconta Lancisi – ma non sapevo tirare fuori per timidezza, mancanza di cultura e di capacità di usare la parola come fionda dei sentimenti. È la grande lezione di don Milani: se un povero possiede la parola è come se possedesse la fionda usata da Davide contro Golia”.

Il libro si articola in otto parti: dalla gioventù alla conversione, dal seminario alla guerra (durante la quale Milani si salva per miracolo dallo scoppio di una bomba), fino all’analisi delle sue tre opere più importanti (Esperienze Pastorali, L’obbedienza non è più una virtù, Lettera a una professoressa). L’ultima parte va dalla morte di don Milani alla sua storica riabilitazione, con la visita di papa Francesco a Barbiana, nel 2017. Il libro si conclude con due testimonianze inedite e di grande spessore: Adele Corradi, 99 anni, la professoressa che, dal 1963, aiutò don Lorenzo a fare scuola a Barbiana fino alla sua morte, e Francuccio Gesualdi, che con il fratello Michele ha vissuto in canonica con il priore.

Ilfattoquotidiano.it pubblica qui in anteprima un brano del capitolo intitolato Il cappellano in cui si racconta il periodo a San Donato di Calenzano, in cui fonda il doposcuola e matura le esperienze pastorali, poi confluite nell’omonimo libro. Esperienze che lo portano a confliggere con la Curia, la Dc e il mondo padronale.

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Fin dai primi giorni del suo arrivo a San Donato di Calenzano, don Lorenzo mostra una particolare attenzione nei confronti dei poveri e dei lontani. Capisce che non si sarebbero avvicinati, toccava invece a lui, al giovane cappellano, uscire dalla canonica per andare a trovare gli infedeli nelle loro abitazioni, nelle fabbriche e nelle case del popolo. Pertanto non perde tempo, don Lorenzo. Inforca la bicicletta e si mette a pedalare. Da prete missionario. E fin dai primi giorni conduce una vita intensa, di cui ragguaglia la mamma nei minimi particolari, persino in quelli culinari, come quando racconta di essersi dovuto preoccupare di «sorvegliare il coniglio in pentola» perché era rimasto solo in canonica.

L’impatto con i fedeli non fu affatto facile per il giovane cappellano: «Se non lo si sapesse già in partenza che il nostro è il mestiere dei fiaschi ci sarebbe da scoraggiarsi. Tutto casca, tutto muore, tutto s’arena e ci vuole fede per pigliare iniziative nuove», scrive il 27 luglio del 1948. Calenzano si trova nella piana tra Firenze, Prato e Pistoia, fra i monti della Calvana e Monte Morello, a ridosso dell’autostrada del Sole; ha conosciuto nel dopoguerra una notevole espansione demografica, passando da circa 8 mila a 18 mila abitanti. La parrocchia di San Donato era composta da circa 1200 persone, in prevalenza operai che lavoravano nelle aziende tessili pratesi. C’erano poi contadini, muratori, cavatori, artigiani e commercianti. Sul piano politico la parrocchia era
spaccata in due: comunisti e democristiani. I primi, di gran lunga più numerosi, frequentavano la casa del popolo, i secondi la parrocchia.

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Don Lorenzo prende a cuore i suoi parrocchiani con un impegno totale: non si allontanava neppure per mezza giornata perché temeva che qualcuno potesse avere bisogno di lui. «Un altro imbecille come me, che ha perso la testa per voi, ricordatevi che non lo ritrovate più nella vita», si sfogava con i suoi ragazzi, soprattutto quando li vedeva dubbiosi se andare alla scuola popolare. A un’amica professoressa che lo invita a visitare il Louvre di Parigi, don Lorenzo risponde: «Verrò quando non ci saranno più ingiustizie sociali e ragazzi che non hanno più bisogno di scuola».

Il giovane cappellano manifesta una particolare predilezione. Quando a Calenzano arrivava una carovana di saltimbanchi, don Lorenzo raccomandava ai suoi ragazzi di andare a vedere lo spettacolo. Orlando Gensini esprime le sue perplessità, ma il giovane cappellano insiste: «Andate perché anche loro hanno bisogno di campare ed è doveroso aiutarli». Poi aggiunge: «Quanto farei volentieri il cappellano degli zingari…». Una volta, a Prato, don Milani mette la bici nel posteggio ma ha finito tutti i soldi e non sa come pagarlo. Per fortuna incontra alcune sue parrocchiane: «Se mi date qualcosa, altrimenti torno a casa a piedi». Le donne si frugano in tasca e gli danno i soldi ma in quel momento passa di lì una zingara e il giovane cappellano le dona quello che ha ricevuto. E alle parrocchiane di San Donato non rimane che frugarsi di nuovo in tasca

Don Lorenzo sosteneva che i lontani non bastava andare a cercarli ma occorreva condurre uno stile di vita credibile ai loro occhi. Solo così sarebbe stato possibile abbattere il muro di diffidenza che li separava dalla Chiesa. La carità sacerdotale lo induce a indossare i panni dei lontani in una sorta di mimetismo evangelico: diventa così povero tra i poveri, operaio tra gli operai, orfano tra gli orfani, ultimo tra gli ultimi. Il rigore di Lorenzo rasenta la spietatezza sia con se stesso sia nei confronti di quei comportamenti della Chiesa e dei suoi confratelli sacerdoti che riteneva difformi dal Vangelo. «Notammo che conduceva una vita molto modesta. Badava che il suo livello non fosse superiore a quello dei parrocchiani», racconta Luana Facchini. La sua stanza ad esempio era disadorna: una branda per dormire e una libreria costruita con assi di legno. Il prete non doveva avere in casa una «comodità», come la chiamava, se non la possedeva anche una sola famiglia della parrocchia. Lo angustiava infatti l’idea che i parrocchiani lo potessero inserire nella classe «di quelli che hanno anche il superfluo».

Essere il più povero di tutti gli abitanti di San Donato diventa così per il giovane cappellano un assillo costante di vita e un preciso impegno pastorale. La considera infatti la condizione necessaria per «poter parlare sempre dalla cattedra ineccepibile della povertà», scriverà in Esperienze pastorali. La paga di cappellano ammontava a 4000 lire al mese. Don Lorenzo li spendeva per acquistare libri e quaderni per il doposcuola dei ragazzi e per aiutare i poveri. Non accettava offerte economiche per la celebrazione della messa. Se qualche fedele desiderava donare qualcosa, poteva depositare i soldi nella borsa dell’accatto mentre in sacrestia don Lorenzo non sopportava «discorsi a bischero». La messa non aveva prezzo e durante la celebrazione lui non accettava di pregare per Tizio o per Caio, magari dietro pagamento.

L’estrema povertà è un tratto caratteristico della fede cristiana di don Milani: «Ciò che essenzialmente distingue la beneficenza cristiana da quella filantropica è che il cristiano agisce per amore di Dio… Il filantropo invece ama il prossimo e basta. San Francesco per esempio regalò tutti i suoi beni al ricco padre… Si può ben dire che amava la povertà più che i poveri e che voleva la perfezione cristiana più nello spogliamento di sé che nel vestimento degli altri», scrive il 17 luglio 1957 a un suo giovane amico prete, don Ezio Palombo. A San Donato don Lorenzo si trova sprofondato nei drammi sociali e nei conflitti politici della società italiana degli anni Cinquanta, in una zona operaia e comunista come Calenzano. Era l’Italia divisa dalla Guerra fredda e lacerata dalle tensioni sociali prodotte dalla ricostruzione della fase postbellica. Si trovava così immerso in contrapposizioni che non permettevano scelte di autonomia, neanche facendo appello ai valori evangelici.

O di qua o di là, bianchi o rossi, padroni o operai. Ma don Lorenzo non accetta di piegare la verità del Vangelo, l’unica bussola che ispirava i suoi comportamenti, al realismo dello scontro politico, ideologico e sociale del tempo e paga la sua obbedientissima ribellione con l’esilio a Barbiana e l’emarginazione dalla sua Chiesa. «La ricerca dell’ultimo come campo dove buttare il seme del Vangelo fu il segno della sua profezia», sottolinea Falossi. Così, quando le polemiche sul suo operato di cappellano esplodono dirompenti e cominciano a infittirsi le voci di un possibile allontanamento da San Donato, don Lorenzo prende carta e penna e, il 25 aprile 1954, scrive al cardinale Dalla Costa una sorta di autodifesa dei suoi sette anni di apostolato, in cui dà conto delle ragioni che fino ad allora avevano ispirato la sua condotta pastorale, soprattutto riguardo ai problemi politici, che più avevano suscitato scandalo e divisioni. Spiega che, resosi conto dello stato di disagio in cui viveva il suo popolo per via delle ingiustizie, di cui era vittima, e del rancore profondo che nutriva nei confronti del governo democristiano e del clero, aveva deciso di «scindere con esattezza a costo d’essere crudeli le responsabilità (fittizie o reali che siano) del governo dai purissimi principi del Vangelo e delle encicliche sociali».

Un capitolo importante del dissidio politico tra don Milani e la Chiesa fiorentina sono le elezioni amministrative del 1951. I vescovi toscani avevano emanato un decreto per prescrivere ai cattolici il dovere di votare per quei candidati che difendevano i diritti di Dio, della Chiesa e della famiglia cristiana. L’Osservatore Romano a sua volta aveva escluso dal novero dei partiti da votare anche i socialisti di Giuseppe Romita e di Giuseppe Saragat. Il giovane cappellano non viene meno alla direttiva dell’episcopato toscano e della Santa Sede ma lo fa in un modo che, mettendo a nudo l’ipocrisia delle gerarchie cattoliche, finisce per gettare benzina sul fuoco delle polemiche. Don Lorenzo infatti, ligio alla lettera del decreto dei vescovi, consiglia ai suoi parrocchiani di votare per la Dc ma non per i partiti laici, in quanto non cristiani, laici e massoni. La Curia redarguisce il giovane cappellano perché i democristiani di Calenzano avevano stretto intese elettorali anche con i partiti laici per sconfiggere le sinistre. Don Milani non si piega all’utilitarismo politico della Dc locale e della Curia e, per evitare ulteriori polemiche, se ne va per una settimana, quella calda delle elezioni, a trovare alcuni amici in Germania.

Due anni dopo, alle elezioni politiche del 1953, il ragionamento politico di don Lorenzo si fa più sottile e scomodo per la Curia. Dopo aver distinto i cattolici dai non credenti, sostiene che a questi ultimi non poteva essere chiesto di votare per la Dc. Spiega infatti che al disoccupato o al senzatetto non credente «non si può offrire riforme che lo raggiungeranno dopo la sua morte». Il voto alla Dc poteva essere invece chiesto ai cattolici, invitandoli però a scegliere quelli che avrebbero potuto difendere meglio gli interessi dei poveri. Le sottili distinzioni politiche di don Milani non fanno che alimentare ulteriormente lo scontento nei suoi confronti da parte della Curia e di una parte consistente della Dc. Mons. Tirapani, il professore che in seminario lo cacciava spesso fuori dalla classe, lo convoca in Curia e lo accusa di fare il gioco delle sinistre. L’incontro si rivela durissimo, racconta Alice in una lettera alla figlia Elena del 27 aprile 1953: «Lorenzo è stato chiamato in Curia. Ha avuto una scenata furiosa con mons. Tirapani, gli ha rifiutato obbedienza. Adriano che ha incontrato Lorenzo sabato quando usciva dalla Curia mi ha detto che era verde e che sembrava un matto. Pare ne abbia dette di tutti i colori». Il dado era tratto. Per la Curia fiorentina don Milani era un prete rosso. Un anno dopo, per punizione, lo esilierà a Barbiana. Ma nelle ragioni dell’esilio finora non è stata approfondita l’ostilità del mondo industriale, in particolare quello tessile del Pratese, come invece lascia intuire la testimonianza di Loris Capovilla, segretario di papa Giovanni XXIII: «Don Milani ha molto sofferto. Dirà taluno: per causa sua. Ma, in faccia alla morte, sembra doveroso aggiungere che trovandosi in zona scristianizzata, ha voluto tentare metodi nuovi, disturbando quei ceti padronali che non perdonano». Ecco, i ceti padronali che «non perdonano»…

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