Mentre l’inflazione impoveriva i lavoratori, le grandi aziende del comparto energetico e agro-alimentare hanno più che raddoppiato i propri profitti trasferendo i guadagni ai propri azionisti. Nel frattempo hanno scaricato sui consumatori l’aumento dei costi dei beni intermedi, contribuendo ad accelerare la corsa dei prezzi. È quella che alcuni economisti hanno battezzato “greedflation“, cioè “inflazione da avidità“. Le imprese farmaceutiche, dal canto loro, hanno tratto enormi utili dai vaccini Covid e con il supporto delle istituzioni hanno difeso a spada tratta i propri monopòli mentre molti tra i Paesi più poveri del mondo rimanevano senza accesso alle dosi. Sono alcuni esempi di come disuguaglianze ed eccesso di concentrazione della ricchezza – favoriti dalle politiche di governi e banche centrali, che hanno fatto lievitare il prezzo delle attività finanziarie – finiscano per avere a livello globale un effetto valanga che amplifica ulteriormente le crisi e le vulnerabilità. Come ogni anno, in occasione dell’inizio del World Economic Forum di Davos la ong Oxfam ha messo in fila le tessere del mosaico in un’analisi basata sui dati raccolti dalle organizzazioni internazionali e sulle evidenze che derivano dal suo lavoro sul campo.

La premessa è che, tra aumenti straordinari dei costi delle materie prime e dell’energia, disastri climatici sempre più frequenti e conseguenze del Covid che continuano a farsi sentire pesantemente soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, il mondo sta affrontando una congiuntura negativa senza precedenti. Che però non sfiora nemmeno l’1% più ricco della popolazione mondiale. Anzi. Nonostante il tracollo dei mercati azionari nel 2022, la ricchezza dei miliardari che fanno parte della classifica di Forbes è cresciuta tra marzo 2020 e novembre 2022 al ritmo di 2,7 miliardi di dollari al giorno. Questo dopo che, negli ultimi dieci anni, il top 1% ha visto raddoppiare la propria fortuna (un incremento superiore di 74 volte a quello registrato dal 50% più povero) e nel biennio 2020-2021 ha incassato quasi due terzi dell’incremento della ricchezza netta aggregata.

Sul fronte opposto, i miliardi di persone che compongono il 90% più povero vedono il loro potere di acquisto sempre più assottigliato dall’esplosione dei prezzi. L’anno scorso, almeno 1,7 miliardi di lavoratori vivevano in Paesi in cui l’inflazione ha superato la crescita dei salari. Un’analisi di Oxfam basata su dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro stima un calo degli stipendi in termini reali (il potere d’acquisto, appunto) pari a 337 miliardi di dollari per i lavoratori di 81 Paesi. Al contrario, l’Ilo non trova alcuna prova a sostegno della ipotetica spirale prezzi-salari tanto temuta dalle banche centrali perché contribuirebbe al circolo vizioso dell’inflazione.

Ci sono invece sempre più evidenze, nota Oxfam, a sostegno della tesi secondo cui l’aumento dei prezzi registrato a livello globale nell’anno appena trascorso è stato stimolato non solo dalle note conseguenza della guerra in Ucraina, ma anche dalla crescita dei profitti di cui si parlava all’inizio, che si accompagna sempre più spesso al riacquisto di azioni proprie con conseguente aumento del valore di quelle ancora in circolazione. Recenti analisi relative agli Stati Uniti, al Regno Unito e all’Australia“, si legge nel report, “hanno rilevato come rispettivamente il 54%, il 59% e il 60% dell’inflazione sia stato determinato dai profitti. In Spagna, il CCOO (uno dei più grandi sindacati del Paese) ha stimato che i profitti siano stati responsabili dell’83,4% dell’aumento dei prezzi durante il primo trimestre del 2022”.

La ong ha esaminato in particolare l’andamento degli utili delle maggiori aziende agro-alimentari ed energetiche mondiali, perché si tratta di comparti “dominati da un numero ristretto di società oligopolistiche, in grado di mantenere prezzi elevati senza timore di essere superate dalla concorrenza“: di conseguenza “quando i costi esterni diminuiscono, i guadagni vengono trasferiti agli azionisti e non ai consumatori su cui grava il peso dell’aumento dei prezzi”. L’analisi su 95 imprese ha rilevato che hanno conseguito 306 miliardi di dollari di extraprofitti (definiti come utili in eccesso di almeno il 10% rispetto a quelli del quadriennio 2018-2021) l’84% dei quali – 257 miliardi – è andato agli azionisti. Alimentando le fortune dei più ricchi, nelle cui mani si concentra la proprietà azionaria. Un esempio? La dinastia Walton, che possiede la metà di Walmart, ha ricevuto 8,5 miliardi di dollari in dividendi e buyback azionari.

Nel frattempo le disuguaglianze tra Paesi si sono ulteriormente allargate perché dopo la pandemia quelli a basso reddito non hanno potuto mettere in campo le risorse necessarie per finanziare misure di sostegno ai redditi e alle fasce vulnerabili. I dati dicono che lo stimolo pro capite nei Paesi ad alto reddito è stato 579 volte superiore a quello dei Paesi a basso reddito, la metà dei quali nel 2020 ha ridotto la quota di spesa pubblica destinata alla sanità. Una disparità che ha reso più difficile la ripartenza delle loro economie. Ora, poi, l’aumento dei tassi di interesse fa sì che la sostenibilità dei debiti pubblici sia messa a dura prova. Un circolo vizioso che rischia di portare nella trappola dell’austerità: Oxfam ha calcolato che nel quinquennio 2023-2027 almeno 148 Paesi pianificano di ridurre la spesa
pubblica. Una via d’uscita c’è, secondo la ong: “tax the rich“. Vale a dire che le politiche per i meno abbiente possono essere finanziate con prelievi a carico dei più ricchi e delle imprese che hanno visto lievitare i profitti.

(Foto di Antonio Manidi per Oxfam)

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