Matteo Messina Denaro è stato arrestato. Diabolik, il suo ispiratore, “U siccu”, oppure Alessio, come si firmava sui pizzini, è stato catturato a Palermo dagli uomini del Ros dopo trent’anni di latitanza. L’adorato capo di Cosa Nostra, quello per cui si è pregata anche la Madonna di Lourdes, l’uomo invisibile o il camaleonte, come è stato definito in alcuni saggi su di lui, si trovava in una clinica privata nella sua Sicilia. L’inchiesta che ha portato alla cattura del superlatitante di Castelvetrano è stata coordinata dal procuratore di Palermo, Maurizio de Lucia, e dal procuratore aggiunto Paolo Guido.
Nella clinica privata La Maddalena di Palermo il boss era in cura da circa un anno. Quando il suo sguardo ha incrociato quello dei carabinieri, che gli danno la caccia da quasi tutta la vita, il boss ha detto: “Sono Matteo Messina Denaro”. Poi è stato portato via fra gli applausi di alcuni pazienti della struttura che hanno incoraggiato i carabinieri: “Bravi, bravi”. La fine di un’epoca per Cosa Nostra, così come era stato con la cattura di Bernardo Provenzano e di Totò Riina di cui Messina Denaro era uno dei “rampolli”.
L’11 aprile 2006 è stato arrestato Bernardo Provenzano, anche lui malato nell’ultimo periodo della sua vita, anche lui come Diabolik circondato da una fitta rete di protezione che l’ha portato fino in Francia a operarsi per un tumore alla prostata, sotto falso nome. Simbolicamente l’arresto di Messina Denaro oggi è molto importante: da tempo gli inquirenti sono sulle sue tracce e conoscono molti dei delitti di cui il boss si è macchiato. Hanno anche ipotizzato come sarebbe stato il suo volto e hanno seguito i suoi movimenti economici e arrestato amici e fiancheggiatori, ne hanno conosciuto i vizi, il lusso, le abitudini. Ma lui era rimasto l’invisibile pur non essendosi spostato dalla sua terra, dove aveva il pieno comando.
Le tracce della sua presenza “U Siccu” le aveva lasciate nelle case che ha frequentato, nelle persone con cui ha avuto contatti, nei pizzini che sono stati ritrovati nel 2006. “Sono il quarto di sei figli e sono l’unico che ha continuato l’attività di mio padre dedita alla coltivazione dei campi”, aveva detto Messina Denaro negli uffici della squadra mobile di Trapani il 30 giugno del 1988, ascoltato come testimone di una indagine per omicidio. Omettendo di ammettere che dal padre, don Ciccio Messina Denaro, aveva ereditato anche l’attività mafiosa. Matteo aveva ucciso già da minorenne. Aveva dimostrato agli altri boss la sua potenza criminale che è diventata il simbolo della continuità di Cosa Nostra, del suo volto nuovo, ma sempre legato ad antiche tradizioni. Matteo Messina Denaro aveva un legame molto stretto con Totò Riina. E’ stato lo stesso boss a dirlo in carcere a un suo compagno di detenzione.
“Suo padre buonanima era un bravo cristiano, un bel cristiano. A lui gli ho dato la possibilità di muoversi libero però era un cristiano perfetto, un orologio. Lo ha dato a me (disse il boss riferendosi a Matteo) per farne quello che ne dovevo fare. E’ stato 4 o 5 anni con me. Impara bene, minchia”. I pentiti hanno raccontato dei suoi rapporti con molte belle donne anche durante la latitanza. Si teneva anche con loro in contatto con i pizzini. A Sonia scriveva l’allora il giovane boss: “Devo andare via, non posso spiegarti le ragioni della mia scelta. In questo momento le cose depongono contro di me, sto combattendo una causa che non può essere capita…” Lei rispondeva con un altro bigliettino: “Ti prego, non dirmi di no…”. Ma il padrino non parlava solo con le sue donne attraverso i pizzini, ma anche con Provenzano e con altri mafiosi.
L’uomo più ricercato al mondo è ritenuto responsabile di un numero imprecisato di esecuzioni. Tra gli organizzatori del sequestro del piccolo Giuseppe di Matteo rapito per costringere il padre Santino a ritrattare le rivelazioni sulla strage di Capaci, poi strangolato e sciolto nell’acido dopo quasi 800 giorni di prigionia. Ma c’era anche nelle stragi del ’92 costate la vita ai giudici Falcone e Borsellino e per gli attentati del ’93 a Firenze e Milano. Il boss di Cosa Nostra che si è nascosto per tutta la vita per sostenere la sua “causa”, ovvero la causa di Cosa Nostra, ha lasciato come hanno fatto gli altri boss un suo erede? E chi sono stati i suoi fiancheggiatori? Questa storia non è finita.