Dopo i piccioli, c’è la politica. Quando Matteo diventa un fantasma la Prima Repubblica sta morendo. La seconda nasce nel 1994: Forza Italia vince le elezioni e Silvio Berlusconi diventa presidente del consiglio. In Parlamento, da Trapani, arriva anche un uomo distinto, uno con una barba curatissima: si chiama Antonio D’Alì ed è il rampollo di una delle più importanti famiglie della provincia. Proprietari di latifondi, di saline e di banche, i D’Alì hanno dato lavoro a tantissimi siciliani. Anche ai Messina Denaro. A raccontarlo è lo stesso Matteo, un giorno che lo chiamano in commissariato. A Partanna c’è stato un omicidio e i poliziotti vogliono capirci di più. Matteo nega: di quella storia non sa nulla. Lui è solo un agricoltore, un “viddano”, come padre. Ma loro non sono “viddani” come gli altri: loro lavorano per i D’Alì. “Mi chiamo Matteo Messina Denaro, sono il quarto dei sei figli di mio padre Francesco Messina Denaro e sono l’unico che ha continuato l’attività di mio padre dedita alla coltivazione dei campi. Voglio precisare che mio padre ha iniziato la sua attività agricola come campiere e coltivatore presso i terreni della famiglia D’Alì Staiti”, scandirà il giovane mafioso, abilissimo a far valere tutto il peso di quel cognome autorevole. Per quella famiglia, aggiunge, lavora pure suo fratello maggiore, Salvatore: non in campagna, però. Salvatore ha studiato e ha un posto alla Banca Sicula. Sono vecchie storie che torneranno d’attualità anni dopo, quando D’Alì finirà sotto inchiesta per concorso esterno. Dicono che per fasi eleggere al Senato ha avuto i voti della mafia, almeno fino alle elezioni del 2001. Dicono che per sdebitarsi ha fatto trasferire lontano da Trapani un prefetto odiato dai boss. E che ci aveva provato pure col capo della squadra mobile: si chiama Giuseppe Linares ed è l’uomo che per anni ha dato la caccia a Matteo. Un giorno, dopo uno dei tanti blitz antimafia, lo chiama, si congratula e poi dice: “Sarebbe il caso che lei se ne andasse, è troppo esposto”. Era il 2002, Linares ricorda che il tono di quella chiamata era algido. Il poliziotto sarà poi trasferito solo nel 2013: lo promuovono e lo mandano a Napoli. Dopo un processo lungo e complesso, invece, a D’Alì lo hanno condannato in via definitiva a sei anni di carcere. Nel frattempo si è tagliato la sua barba.

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