“In House of cards l’idea che il personaggio di Frank Underwood parli direttamente in macchina viene dal cosiddetto “direct address”, la tecnica teatrale che ti permette di guardare negli occhi i singoli spettatori mentre reciti dal palco. È un’idea di Shakespeare nel Riccardo III che ho più volte interpretato”.
Masterclass all’insegna dell’imitazione (Jimmy Stewart e Jack Lemmon sublimi) e all’ombra del Riccardo III. Non poteva che essere una mezz’ora brillante e briosa quella che Kevin Spacey ha offerto al pubblico riservatissimo accorso al Museo del Cinema di Torino in occasione del premio Stella della Mole. Dopo aver ringraziato parecchie persone a lui vicine, i fan, e aver sottolineato che il Museo “ha avuto le palle (in italiano ndr) per invitarmi qui stasera”, il 63enne Spacey ha rievocato assieme a il direttore del Museo del Cinema, Domenico Di Gaetano, alcune tappe della sua carriera artistica prima del brusco stop di cinque anni fa dovuto all’ondata di accuse di molestie sessuali seguite al #MeToo. “Sono stato un attore incredibilmente fortunato. Ho imparato da tanti registi importanti. Mike Nichols, Alan J.Pakula, Clint Eastwood, Bryan Singer, David Fincher. Quest’ultimo si sa gira numerose volte la stessa inquadratura finché non sei talmente stanco che lasci da parte ogni gigioneria e la fai pulita come vuole lui”, ha spiegato Spacey riferendosi al killer di Seven, John Doe.
Spacey ha così raccontato un aneddoto che a sua volta gli era stato raccontato dall’amico Jack Lemmon. “Nel mio primo film diretto da George Cukor (Spacey imita la voce di Lemmon in maniera pazzesca ndr) ad ogni “stop”, lui mi diceva “va bene Jack, la prossima falla un po’ meno”. Allora recitavo di nuovo la stessa scena. Stop. ‘Ora è ottimo George, vero?’. ‘Si Jack, ma un po’ meno’. Allora la recitavo di nuovo. ‘Stavolta è bellissima George, vero?’. ‘Si Jack, ma un po’ meno’ ‘Allora George non devo recitare?!’ E lui: ‘Esatto!’. Anche con il Lester Burnham di American Beauty il consiglio del regista inglese a Spacey è stato lo stesso, proprio come racconta lui: “Sam mi fece vedere L’appartamento di Billy Wilder e mi chiese di ispirarmi a Lemmon. Voleva che come in quel film, il personaggio di Lester compisse un viaggio interiore ma senza che questo cambiamento si percepisse, voleva che il personaggio si evolvesse solamente diventando alla fine del film un altro rispetto all’inizio”. Lemmon venne poi ringraziato sul palco degli Oscar da Spacey: “Sono sceso dal palco e il mio telefono stava squillando. Ho guardato ed era Jack Lemmon. ‘Ha detto:’ Ehi, ascolta, stronzo, sei un figlio di puttana.’ E io: “ma se ti ho appena ringraziato…’. E lui: ‘Si certo, ma io ho vinto il mio primo Oscar nel 1963 e mi ci sono voluti 11 anni per vincere il secondo. Tu l’hai fatto in quattro, stronzo”. E se per Seven, Spacey conferma di essere stato una seconda scelta da parte di Fincher (“Mi tirò dentro lui perché l’attore con cui avevano iniziato a girare era stato licenziato. Visto che nel frattempo avevo acquisito una certa popolarità scelsi che il mio nome venisse tolto dai titoli di testa. La mia preoccupazione era che se il film fosse stato pubblicizzato come Brad Pitt, Morgan Freeman e Kevin Spacey e io non mi fossi presentato nei primi 40 minuti, il pubblico avrebbe capito”), ecco che sull’alone di mistero che regnava sul set di I soliti sospetti sbuca un altro aneddoto curioso: “Bryan mi disse: di solito a fine giornata guardi i giornalieri?. Risposi di sì e lui: ‘Mi piacerebbe che questa volta non lo facessi perché ho bisogno che tu non indovini in nessun momento nel corso delle riprese cosa stai nascondendo e rivelando e cosa sta succedendo in generale. Ho bisogno che ti fidi di me (…) non so se qualcuno conosce questa storia, ma c’è un episodio divertente accaduto la prima volta che Bryan ha portato il cast a vedere un montaggio preliminare. Finita la visione ho visto Gabriel Byrne litigare con Bryan nel parcheggio perché era assolutamente convinto di essere Keyser Söze”.
Spacey ha poi ringraziato la madre, la prima ad accorgersi e ad apprezzare le capacità imitative quando il figliolo era ancora piccolo e rifaceva la voce dei grandi del cinema anni cinquanta/sessanta. Tra questi Spacey si è cimentato in una imitazione di James Stewart davvero spassosa chiudendo poi con un riferimento teatrale (“tra cinema e teatro c’è una grande differenza: nei film si congela un istante della tua prova, mentre sul palco domani potrai recitare meglio di ieri, crescere, evolvere”): “In House of cards l’idea che il personaggio di Frank Underwood parli direttamente in macchina viene dal cosiddetto “direct address”, la tecnica teatrale che ti permette di guardare negli occhi i singoli spettatori mentre reciti dal palco. È un’idea di Shakespeare nel Riccardo III che ho più volte interpretato”.