La situazione è talmente critica che il ministero della Salute ha istituito un tavolo di lavoro permanente per far fronte alla carenza di farmaci. Dai più comuni, come gli antibiotici e gli antipiretici, fino a quelli utilizzati per terapie specifiche, come gli antitumorali e gli anti-ipertensivi, i medicinali scarseggiano. Aifa nel suo ultimo bollettino ne conta 3.200, dei quali 554 non si trovano a causa di difficoltà produttive o problemi distributivi. Un fenomeno che non è certo nuovo ma che, a causa di diversi fattori che si sono accavallati negli ultimi mesi, è più grave rispetto al passato. Secondo il segretario nazionale di Federfarma, Roberto Tobia, intervistato dal Messaggero, la carenza che stiamo sperimentando è persino “più alta, anche se leggermente, che nel periodo più buio della pandemia”.
E così, un po’ per l’elevata richiesta – a partire dal Covid, la domanda mondiale di farmaci è infatti letteralmente esplosa -, un po’ per il fatto che in alcuni casi è cessata la produzione, un po’ per la discontinuità delle forniture, Tachipirina, Efferalgan, Tachifludec, Neoborocillina non si trovano. Come sembrano spariti dalla circolazione l’amoxicillina (un antibiotico generico), alcuni preparati utili per le malattie croniche (ad esempio il Levodopa) e per i pazienti oncologici (lo Zofran) e il Ventolin, necessario a curare l’asma. A determinare le carenze c’è sì una corsa agli acquisti spinta da paure irrazionali e dalla ripresa dell’influenza (oltre che che del Covid), dopo quasi tre anni in cui sembrava debellata grazie all’uso massiccio di mascherine. Ma c’è soprattutto un problema strutturale che riguarda non solo l’Italia ma tutta l’Europa: la dipendenza verso l’Asia, e in particolare la Cina, per le forniture dei principi attivi e, più a monte della filiera, delle materie prime necessarie al packaging, come carta, plastica e alluminio.
La dipendenza viene da lontano, almeno dagli anni ’90, quando i paesi europei hanno iniziato a rivolgersi sempre di più all’estero per soddisfare il proprio fabbisogno. E che adesso, con il dilagare del Covid che rallenta la produzione cinese e aumenta i consumi interni del Paese, mostra tutte le sue fragilità. Mentre negli anni ’70 e ’80, l’Italia in particolare e l’Europa in generale, importavano solo il 30-40% dei principi attivi, alla fine degli anni ’90 la percentuale era salita al 60% per poi toccare l’attuale 74%. Con Pechino a dominare il mercato: il 70% dell’import viene dalla Cina, mentre la parte restante se la spariscono l’India e alcune new entry come Singapore e gli Emirati Arabi.
Per questo, negli ultimi mesi, molte aziende italiane stanno cercando di trovare fornitori alternativi, soprattutto in India e a Singapore, con l’obiettivo a lungo termine di riportare in Italia almeno una parte della produzione. Ma non è tutto risolto; anzi, come testimonia il caso Olon, riportato da il Sole 24 Ore. Da alcuni mesi il governo cinese ha bloccato le esportazioni di ibuprofene. Per sopperire alla mancanza della molecola, l’impresa italiana si è rivolta a fornitori indiani, da cui ha acquistato un partita di principio attivo sufficiente fino a giugno. Ma c’è dell’altro. A incidere, nel farmaceutico come in altri settori, è stata anche l’impennata dei prezzi di energia e materie prime che si è verificata l’anno scorso. Una crescita che, come ha spiegato nei giorni scorsi il presidente della Federazione degli Ordini dei Farmacisti Italiani (Fofi), Andrea Mandelli, è stata innescata da “una competizione mondiale all’approvvigionamento di materie necessarie per il packaging dei farmaci come plastica, vetro e alluminio”.
Questo mentre “la sovrapposizione di infezioni Covid e di influenza ha portato a un grande assorbimento di antinfiammatori, mandando in tilt il meccanismo di rifornimento”. Mancano “l’alluminio per i blister che contengono le medicine, il salice per le fiale e le bottiglie di sciroppo, e addirittura il cartone, un materiale che sottovalutiamo ma che è fondamentale per la distribuzione” ha spiegato al Messaggero il segretario di Federfarma, Tobia. Senza contare che “la paura di non trovare questi farmaci spinge i cittadini all’acquisto anche senza che ce ne sia bisogno”. Insomma, stretto tra un boom della domanda e una riduzione dell’offerta, per il settore si tratta di una vera e propria “tempesta perfetta”, come l’ha definita Mandelli. L’allarme, però, riguarda tutta Europa. Pochi giorni fa, l’associazione europea delle aziende farmaceutiche ha inviato alla Commissione Ue una lettera sui rischi dell’eccessiva dipendenza della filiera dall’Asia. In particolare, nella missiva si sottolinea come l’importanza sempre maggiore rivestita dalle forniture estere metta in pericolo la produzione domestica di farmaci. Per questo, la richiesta che le imprese rivolgono a Bruxelles è di sostenere una politica industriale indirizzata al rimpatrio delle fasi del processo produttivo dedicate alla realizzazione dei principi attivi. Un’impresa difficile ma non impossibile: le competenze infatti non mancano. L’Italia rimane il primo produttore europeo di farmaci e fino agli anni ’80 era, insieme alla Spagna, un grande produttore anche di principi attivi.