Rampollo di una antica dinastia mafiosa, Matteo Messina Denaro probabilmente finirà i suoi giorni da capo, cioè in silenzio. Quando ieri è stato arrestato portava al polso un orologio da 30 mila euro, un ‘Franck Muller’, lui è uomo di mondo, allevato dalla borghesia palermitana, coccolato fino al punto che le signore di alto lignaggio lo invitavano ai festini hard (lo disse in aula Salvatore Errante Parrino, amico del ragazzo che invitava Matteo e che questi fece ammazzare).
La primula rossa di Cosa nostra forse non si chiederà neanche chi lo ha tradito, consapevole che i fili si andavano diradando e che prima o poi, pezzo dopo pezzo, sarebbero stati tirati dai potentissimi mezzi dell’Arma: il generale Pasquale Angelosanto ci tiene a dire che non glielo hanno consegnato i Servizi. C’è da credergli, sarà stato il lavoro di fino di qualche capitano illuminato sulla base di una segnalazione semplice: il boss è malato, e di lì via con il database. Tempo fa altri organismi investigativi lavorarono in questo senso ma l’attività fu mandata in aria perché non si fidarono della soffiata sulla malattia. Aprendo così la strada della gloria al generale Angelosanto il quale deve essersi fatto due conti: se lo blocchiamo in clinica stiamo sicuri, ma se lo aspettiamo all’uscita e lo pediniamo vai poi a riprenderlo nel traffico di Palermo, uno di sicuro esperto di contro-pedinaggio – infatti pare proprio che provò a scappare, Matteo, subito acciuffato.
E da uomo pratico il generale ha fatto la scelta giusta, anche se non sapremo mai nulla di rilevante sul covo, che sarà stato ripulito da ciò che conta davvero in un batter di ciglia. Però abbiamo il super latitante che guarderà negli occhi i magistrati e non dirà nulla. Se parlasse sarebbe bellissimo, ma non andrà così. Matteo è un capo. L’ultima volta che fu avvistato si era nell’estate del 1993, in Toscana, a Forte dei Marmi. Era insieme ai suoi due amici, i Graviano, Giuseppe e Filippo, suoi coetanei, e alla fidanzata austriaca Andrea. Trascorse tre mesi al Villa Roma Imperiale. Poi più niente. La polizia scientifica aggiornava l’identikit, invecchiando l’immagine giovanile del boss.
Storico alleato dei Corleonesi di Totò Riina, diede input alle stragi che cambiarono il destino dell’Italia, gli inquirenti sanno che fu lui a decidere di stabilire a Prato la base logistica per realizzare l’attentato di Firenze. Se parlasse, Matteo Messina Denaro ci sbatterebbe in faccia l’immagine criminale di questo paese, con la sua infima borghesia mafiosa che lo ha protetto, con i suoi apparati che si autocelebrano anche quando dovrebbero autocriticarsi, con quella sua politica che scende in campo con la forza del tritolo. Sarebbe una catarsi. Ma Matteo Messina Denaro, capo di Cosa nostra, sessant’anni, la metà passati da latitante, non parlerà. Odiato da tutti, ormai è nell’angolo. Mentre c’è chi parla troppo e chiede scuse al Ros e inneggia alla fine della mafia: forse oggi costoro sono più pericolosi di un capo malato e senza più via di scampo.