Approfittando di qualche personale competenza tecnica nel campo della criminalità organizzata di stampo mafioso, e di ciò che leggo e vedo sui media, mi permetto di fare alcune considerazioni sulla cattura di Matteo Messina Denaro.

Messina Denaro non era il capo della commissione provinciale di Cosa nostra, quindi tecnicamente non era il capo dell’organizzazione. Lo ha detto in modo esplicito il procuratore di Palermo De Lucia, chiarendo che da anni la commissione di Cosa nostra non si è più ricostituita grazie al continuo battere sul territorio siciliano delle procure e delle Forze dell’Ordine (cosa di cui si deve essere grati a questi apparati dello Stato).

L’importanza della sua cattura si evince da altre considerazioni. La prima è che Messina Denaro è l’ultimo dei mafiosi affiliati allo stragismo di Riina, di cui era il pupillo e di cui quindi conosce tutti i segreti. Il suo arresto perciò potrebbe consentire di decrittare e ricostruire quella piramide di contatti, contiguità e complicità con il mondo politico, istituzionale, delle professioni, imprenditoriale e massonico su cui la Cosa nostra riiniana fondava il proprio potere, cioè quel mondo che Falcone chiamava “il terzo livello” e “menti raffinatissime”. Un universo che dal ’92 nessuno ha mai potuto penetrare. Ora, con la fine della latitanza dell’ultimo stragista, forse ci si può provare. Sempre che, come dice Nino Di Matteo, il potere politico e istituzionale sia pronto a sopportarlo, constatazione giustissima ma, allo stesso tempo, inquietante.

La seconda considerazione sull’importanza dell’operazione è che, pur non essendo tecnicamente il capo dell’organizzazione, l’arresto di Messina Denaro ha una notevole importanza strategica, in quanto fa crollare definitivamente il mito dell’inafferrabilità dei capimafia latitanti. Così come sono stati arrestati, nell’ordine, Madonia, Riina, Santapaola e Provenzano, così è stato catturato lui: il messaggio che trasmette la brillante operazione del Ros dei Carabinieri è che nessun criminale, per quanto forte, può esimersi dal pagare i propri conti con la giustizia e che, comunque, lo Stato è sempre più forte della malavita.

Che i carabinieri abbiano festeggiato l’arresto del boss, cosa che qualcuno contesta, è perfettamente legittimo. Le forze di polizia hanno istituito da più di dieci anni delle squadre speciali con il solo compito di catturare questo individuo. I carabinieri del Ros, nella specie, hanno vissuto giorni, settimane, mesi, anni di appostamenti, intercettazioni ambientali e telefoniche, di analisi di dati incrociati, contatti con informatori e riunioni in procure varie, spendendo mattine, pomeriggi, sere e notti nella sua caccia, con decine di blitz falliti all’ultimo minuto. Se poi questo accade in Sicilia, terra martoriata da centinaia di omicidi di persone perbene, è assolutamente comprensibile che chi vede coronato lo sforzo di anni possa esprimere la propria contentezza. I carabinieri sono esseri umani, non robot, e se un essere umano è felice di aver fatto bene il proprio (duro) mestiere è giusto che lo esprima.

Sui 30 anni di latitanza di Messina Denaro molti affermano che lo Stato si dovrebbe vergognare di non averlo preso prima. Ma allora Luciano Liggio, 16 anni di latitanza; Salvatore Riina, 25 anni; Bernardo Provenzano, 41 anni? Erano le figure di vertice di un’organizzazione agguerrita e famosa, che poteva contare sugli agganci di cui parlo sopra. Fra coperture, qualche talpa, l’omertà di parte della gente e la paura dell’altra parte, se sei furbo e puoi contare su tanti appoggi e sulla paura che incuti in giro, riuscire a nascondersi in fondo è possibile.

Si contesta che i carabinieri abbiano portato Messina Denaro fuori della clinica senza manette e lo abbiano aiutato a salire in auto. Su questo punto ci sono due cose da dire. La prima: negli ultimi anni vige una normativa molto restrittiva che impone alle procure (che a loro volta lo impongono alle Forze dell’Ordine) di non fornire nomi e foto degli arrestati, oltre che di non offrire a chicchessia immagini spettacolarizzanti dell’arresto, con filmati o altro. Nel caso di ieri, quindi, è stato uno strappo alla regola (dovuto all’importanza eccezionale dell’operazione) che la procura abbia consentito di diffondere le immagini del breve percorso di Messina Denaro scortato dai carabinieri. Ai tempi di Enzo Tortora purtroppo questa sensibilità non c’era, e si è formata proprio grazie anche all’emozione di aver visto un uomo, poi risultato innocente, portato via in manette come un serial killer.

La seconda cosa al proposito è che non siamo in una dittatura, dove la polizia militare maltratta e tortura gli arrestati. L’Italia è un Paese civile, quindi è importante che un arrestato sia trattato in modo adeguato. Messina Denaro era innocuo, non poteva scappare in alcun modo, quindi non c’era bisogno di mettergli le manette e meno che mai lo si doveva maltrattare. Anche Nitto Santapaola non fu ammanettato, dopo il suo arresto nel ’93. Era tranquillissimo, aveva chiesto di fare l’ultima colazione con la moglie e gli fu consentito. Ora lui e gli altri superboss ancora vivi sono sepolti sotto vari ergastoli, ed è proprio questo il compito di un carabiniere o di un poliziotto: assicurare alla giustizia un bandito, non trasformarsi in uno sceriffo del Vecchio West.

La procura di Palermo ha diffuso i dettagli dell’operazione. E’ vero che talvolta i “veri” dettagli di un’operazione di polizia non possono essere resi pubblici per motivi di sicurezza, ed è una cosa che succede. Tuttavia bisogna ritenere veritiera la versione della cattura attraverso il cosiddetto “metodo Dalla Chiesa”. Le altre ipotesi sono quella della classica soffiata, cosa che negli anni gli uomini del Ros avranno certamente più volte cercato di provocare. Oppure, come afferma il collaboratore di giustizia Salvatore Baiardo, l’arresto potrebbe essere avvenuto per una trattativa fra il mafioso e lo Stato, probabilmente per farsi arrestare a causa del suo precario stato di salute, successivamente collaborare con la giustizia e quindi godere dei benefici di cui non godono i detenuti all’ergastolo per motivi di mafia o terrorismo che non collaborano. Però qui siamo nel campo del complottismo, vulgata cui decisamente non appartengo.

Tuttavia, rispetto a quanto appena detto, c’è un’altra considerazione importante da fare. A differenza degli altri boss mafiosi, Messina Denaro non ha mai fatto un giorno di galera. Perciò l’idea di passare il resto della vita in carcere, nelle sue condizioni di salute, potrebbe talmente scuoterlo da indurlo a rivelare i segreti dei corleonesi di cui si è detto. Ormai la maggior parte dei protagonisti di quell’epoca è deceduta, quindi le sue eventuali dichiarazioni non farebbero grossi “danni”. Si potrebbe obiettare che un boss di Cosa nostra non parlerà mai, è vero. Ma Messina Denaro non era membro della commissione provinciale come Riina, Madonia, Santapaola e Provenzano. Era un killer, non un capo. Quindi potrebbe non sentirsi un appartenente al gruppo dei boss muti come pesci, ma a quello dei detenuti che collaborano. Potrebbe, però: la sfera di cristallo non ce l’ha nessuno.

Mentre ieri nelle televisioni italiane i servizi impazzavano sull’arresto di Messina Denaro, in qualche parte della Calabria, di Roma, Milano, Toronto, Berlino, Sydney e via dicendo si brindava. Chi sghignazzava erano gli affiliati ai locali della ‘ndrangheta, strafelici del tempo che la stampa stava dedicando alla famosa cattura. Più si pubblicizzava Messina Denaro e Cosa nostra, infatti, più ci si dimenticava della ‘ndrangheta, l’organizzazione mafiosa più potente del mondo. Che quindi continuerà ancor meglio a far girare la coca e i propri affari miliardari, grazie al silenzio in cui vive e prospera e al terrore che incute ovunque, sempre nel silenzio, a chi osa metterglisi contro. Fossero anche i narcos messicani.

È stato molto apprezzabile l’intervento televisivo del colonnello dei carabinieri Lucio Arcidiacono. Con semplicità, serietà e proprietà di linguaggio ha spiegato le fasi della cattura di Messina Denaro senza indossare passamontagna, mefisto o maschera e senza sfoggiare nomi in codice da serie televisiva di quart’ordine. Parlando a viso scoperto con il suo nome e cognome, Arcidiacono ha dimostrato di essere un vero uomo dello Stato.

Dopo l’arresto, la presidente del Consiglio Meloni è volata a Palermo per complimentarsi con i carabinieri e Piantedosi ha dichiarato la propria soddisfazione. È normale. Piantedosi è il ministro dell’Interno, e, per chi non lo sapesse, il ministro dell’Interno coordina l’ordine e la sicurezza pubblica a livello nazionale, qualunque Forza dell’Ordine sia in gioco. Perciò è del tutto fisiologico che il Viminale si ascriva questo successo. Che poi la premier sia andata a Palermo, in effetti, è eccessivo, ma bisogna capirla. È a Palazzo Chigi da un paio di mesi, e, fra tanti problemi e a causa della mancanza di esperienza di premierato, crediamo abbia voluto godersi un momento di relax. In ogni caso, qualunque governo avrebbe ascritto a sé un successo così eclatante, è nella natura delle cose. L’indagine su Messina Denaro va avanti da anni, e se fosse arrivata a conclusione qualche mese fa sarebbe stata Lamorgese a farsene forte. È la politica, nessuno ci può fare niente.

È da escludere, infine, che l’operazione possa essere stata rallentata per favorire l’attuale governo. Per esperienza diretta, so che quando si ha una notizia sulla presenza di un latitante di quel calibro non si aspetta un secondo per catturarlo, perché ogni ritardo potrebbe essere fatale. Latitanti come Messina Denaro, Riina, Madonia o Provenzano svaniscono nel nulla al solo vedere una pattuglia della Polizia municipale che ferma i motorini, è gente che vive nel sospetto e fiuta l’aria come un felino. Rallentare le fasi della cattura, ancor di più per motivi politici, sarebbe stato folle e i Ros sono uomini dello Stato, non un gruppo di guitti. La procura di Palermo, inoltre, non lo avrebbe mai permesso.

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