A sei mesi dal verdetto sono state depositate le motivazioni di condanna nell’appello bis per il maresciallo Roberto Mandolini e il carabiniere Francesco Tedesco sul caso del falso verbale in cui Stefano Cucchi, dopo essere stato pestato, rinunciava alla nomina del difensore di fiducia. “Il reato commesso da Mandolini è connotato da rilevante gravità, sia con riferimento alla capacità a delinquere – perché l’immediata falsificazione è rivelatrice dell’abilità di reagire, anche commettendo illeciti, senza frapporre all’azione delittuosa titubanze o meditazione -, sia per l’intensità del dolo intenzionale, sia per l’entità delle conseguenze della condotta, posto che il falso nel verbale di arresto va individuato come la madre dei successivi depistaggi che hanno inizialmente sviato le indagini sugli autori della violenza subita da Stefano Cucchi verso gli agenti della Polizia Penitenziaria” scrivono i giudici di secondo grado di Roma. Mandolini è stato condannato a tre anni e sei mesi, Tedesco a 2 anni e 4 mesi nell’ambito del processo di appello bis sul pestaggio di Stefano Cucchi. Nelle motivazioni i giudici aggiungono che “non deve omettersi, nella valutazione di elevata gravità del delitto e con riferimento alla condotta contemporanea al reato, che il Mandolini, quando ha commesso il fatto, rivestiva, quale comandante interinale della Stazione Carabinieri Appia, una posizione di garanzia dell’integrità dei ristretti per l’attività di servizio, e che i doveri inerenti quella posizione sono stati violati, oltre che con la condotta di falso finalizzato a coprire la violenza subita dal Cucchi, con la denegata tutela connessa all’assenza di cure tempestive che sarebbero state prestate a Cucchi se il comandante della Stazione avesse, come era suo dovere fare, immediatamente attivato i controlli sanitari anche solo per la verifica che lo stato di Cucchi, dopo le botte, non richiedesse interventi medici ulteriori e in modo tale da rassicurare l’arrestato sulla, doverosa, stigmatizzazione ambientale dell’abuso commesso dai pubblici ufficiali che lo avevano in custodia”. Una condizione che “avrebbe certamente prodotto la rivelazione precoce delle sofferenze patite” dal trentenne e “auspicabilmente l’interruzione della serie causale che ha condotto alla sua morte”. Il 4 aprile del 2022 due carabinieri sono stati condannati a 12 anni per omicidio preterintenzionale per le violenze subite dal geometra spirato una settimana dopo all’ospedale Pertini di Roma.
Per i giudici il maresciallo sapeva quello che era successo alla vittima. “La conducente univocità probatoria dei fatti e la mancanza di una plausibile spiegazione alternativa inducono a ritenere provato che il Mandolini avesse avuto notizia del pestaggio al momento della chiusura e sottoscrizione del verbale di arresto e che, dunque, avesse consapevolmente ed intenzionalmente omesso di menzionare i due autori della violenza su Stefano Cucchi fra gli operanti l’arresto e di riferire del comportamento oppositivo del Cucchi al momento dell’identificazione per accertamenti dattiloscopici e fotosegnaletici”. Per i giudici “ricorrono dunque, tutti gli elementi del reato di falso commesso dal pubblico ufficiale per occultare un altro delitto ed assicurare ad altri l’impunità per altro reato e consistito nell’omissione dell’attestazione di fatti destinati a provare la verità”. Per quanto riguarda la posizione di Tedesco i giudici affermano che ha violato il suo dovere di denuncia, fornendo un contributo minore, ma non minimo, alla consumazione del reato di falso; che lungi dall’essere di modesta gravità, ha rappresentato l’origine di una serie di comportamenti devianti realizzati a cascata, reiterati nel tempo per anni, tentando sempre di allontanare gli inquirenti dal reale accadimento dei fatti”. E ancora: “Non si vuole certo qui sminuire il coraggio dimostrato dal Tedesco quando è intervenuto nell’immediatezza in favore di Cucchi e, seppure tardivamente, a favore dell’accertamento della verità si vuole solo evidenziare che nella presente vicenda diversi sono gli elementi da considerare nella commisurazione della pena, diversi e di segno opposto, rispetto ai quali la sintesi attuata dal primo giudice appare a questa Corte assolutamente condivisibile, così come il giudizio di comparazione – in termini di equivalenza – formulato relativamente alle attenuanti generiche già riconosciute all’imputato; piuttosto, tenuto conto delle conclusioni favorevoli all’imputato raggiunte a proposito di una delle condotta di falso contestate la pena deve essere ridotta della misura di mesi due di reclusione”.