Noi con le emissioni di benzene non c’entriamo nulla. Controllate l’Eni. È quanto, in estrema sintesi ha risposto Acciaierie d’Italia, la società che gestisce l’ex Ilva di Taranto, ad Arpa Puglia che il 5 gennaio scorso aveva inviato una nota nella quale imponeva alla fabbrica di adottare “tutti i possibili interventi correttivi di riduzione delle emissioni di benzene da parte dello stabilimento siderurgico”.
Confermando che negli ultimi anni i valori di benzene registrati dalle centraline erano costantemente aumentate, i tecnici l’Agenzia Regionale di Protezione Ambientale aveva infatti individuato negli impianti dell’ex Ilva la fonte di emissioni della pericolosa sostanza che Iarc, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, ha classificato come “cancerogeno certo per l’uomo”. Per Adi, joint venutre composta da Arcelor Mittal e Invitalia, a produrre quelle sostanze velenose sarebbero altre industrie che si trovano nel territorio. Come l’Eni.
“Sarebbe del tutto ragionevole – scrive Acciaierie d’Italia – valutare e verificare, da parte di Codesta Spett.le Autorità, se sussista una ulteriore possibile fonte di incremento della rilevazione del benzene, visto che – logicamente – lo stabilimento siderurgico dovrebbe essere escluso”. Quale potrebbe essere l’altra fonte? “Sul punto, AdI evidenzia – si legge nella lettera – che nell’ambito della raffineria di Eni Spa contigua allo stabilimento, a partire da novembre – dicembre 2019 è gestito il greggio “Tempa Rossa” proveniente dalla Basilicata e trasportato in raffineria mediante l’oleodotto Viggiano-Taranto”.
Insomma, per i vertici dello stabilimento siderurgico, bisogna accertare che quei valori crescenti di benzene non derivino proprio dalle attività compiute dall’Eni. Ma al di là delle responsabilità di altri, i padroni dell’acciaio negano con forza di avere responsabilità nella vicenda. “Con la presente – scrive infatti Acciaierie d’Italia – deve contestare fermamente tanto il fatto che l’aumento nei livelli di benzene sia attribuibile allo stabilimento siderurgico quanto, di conseguenza, la richiesta di adottare interventi correttivi”. Per i nuovi padroni dell’acciaio, inoltre, il collegamento tra inquinante e fabbrica “non trova il benché minimo riscontro nelle attività di verifica e controllo da parte delle autorità competenti, tra cui la stessa Arpa”.
Lo stabilimento “è stato oggetto – dall’inizio del 2020 ad oggi – di 11 ispezioni ordinarie, oltre a 2 ispezioni straordinarie” e “in nessuna di tali ispezioni sono stati mossi rilievi relativamente alle emissioni di benzene rispetto alle batterie in esercizio. Di conseguenza, non è neppure stata formulata, sul punto, alcuna diffida da parte del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica”. Insomma “l’esercizio dello stabilimento – secondo AdI – è avvenuto nel pieno rispetto della normativa applicabile e delle prescrizioni autorizzative, tanto da non rendere funzionale da parte di AdI l’adozione di alcuna altra misura diretta alla diminuzione degli incrementi di rilevazione del benzene di cui all’oggetto”. Tutto in regola, quindi, non c’è bisogno di alcun intervento.
Eppure Arpa aveva segnalato come la media dei primi 11 mesi del 2022 registrata alla stazione di controllo “Tamburi Via Orsini” fosse pari a 3,3 microgrammi per metrocubo, superiore alle medie annue dal 2019 fino al 2021 rispettivamente di 1,3 microgrammi per metro cubo nel 2019, 2,8 nel 2020 e infine 2,9 nel 2021. Una crescita registrata anche in altre centraline, sia esterne che interne alla fabbrica: in particolare nei primi 11 mesi del 2022 la stazione Cokeria ha registrato un valore medio di 33,2 microgrammi per metrocubo: valore quasi doppio rispetto al 2019 (18,4) al 2020 (28,4) e al 2021 (22,8). Proprio questa valori molto elevati a ridosso degli impianti hanno convinto Arpa che l’ex Ilva sia la sorgente delle emissioni. Ma Acciaierie d’Italia si smarca. Almeno per ora.