Anche quest’anno è arrivato puntuale il World Economic Forum che si svolge nella località svizzera di Davos dal 16 al 20 gennaio. Per dare un tocco di italianità, possiamo considerarlo, almeno per la vicinanza temporale, una specie SanRemo internazionale della canzone economica, se questa esistesse. Otre 2700 selezionatissimi invitati provenienti da 130 paesi tra politici, esperti, giornalisti e commentatori si riuniscono qui ogni anno, soggiornando in lussuosi alberghi, e ciascuno propone il suo repertorio musicale, cioè ci offre le sue valutazioni sull’economia mondiale e fa delle previsioni economiche per l’anno in corso.
Questa lussuosa kermesse dei potenti tecnocrati, o sedicenti tali, dell’economia mondiale ci mostra come il capitalismo globale guarda sé stesso e si autocompiace dei risultati ottenuti, naturalmente.
Uno dei temi centrali di quest’anno è l’inflazione, le sue cause, i suoi effetti e gli strumenti per affrontarla. Un tema molto sviscerato negli anni Ottanta, quando allora l’inflazione era non solo a due cifre, ma è andata anche oltre il 20%. Una lezione però non tanto compresa, a quanto sembra, considerando le idee prevalenti fra i davosiani, espresse anche nelle ottimistiche dichiarazioni del Presidente di Confindustria rilasciate proprio a Davos. Intervistato, ha dichiarato che poiché l’inflazione del ‘22 e del ’23 è un’inflazione da importazioni legata alle materie prime, e dato che il prezzo di queste si sta stabilizzando, nel secondo semestre dell’anno l’inflazione calerà in maniera consistente. Con il calo del prezzo dell’energia anche l’inflazione piegherà la testa.
L’analisi del Presidente di Confindustria a Davos è corretta, quasi banale, ma risulta anche monca, riduttiva e in fin dei conti fuorviante. Se anche l’inflazione nel secondo semestre del 2023 fosse molto bassa, i problemi legati alle recenti variazioni dei prezzi sarebbero risolti solo a metà. Anche con un’inflazione futura nulla, rimangono però da considerare gli effetti di quella appena passata. L’inflazione del 2022 ha tagliato 100/150 euro al mese agli stipendi e questi soldi non saranno più recuperati, anche sa l’inflazione si riducesse nel ’23 a zero.
In definitiva, la domanda che il presidente di Confindustria finge di ignorare, e che invece è centrale oggi, come negli anni Ottanta, è la seguente: come ripartire equamente il costo dell’inflazione. Sicuramente l’inflazione del 2022 non sarà a carico delle imprese che aumentando vistosamente i prezzi e giovandosi degli sconti energetici hanno ampiamente difeso ed anzi recuperato i margini di profitto. Per le imprese italiane le cose stanno andando molto bene, altrimenti non si spiegherebbero i vari record che il sistema produttivo italiano sta ottenendo nel commercio internazionale. Ma anche i lavoratori autonomi hanno potuto aggiustare i loro redditi ottenendo ulteriori privilegi fiscali e potendo manovrare i prezzi a loro piacimento.
Per quel che vale, ma l’esperienza personale è sempre preziosa, cito il caso del mio barbiere che ha portato il prezzo del taglio dei capelli da 22 a 25 euro, con un aumento in linea con l’inflazione. Anche i pensionati, sono stati abbastanza graziati e otterranno discreti aumenti grazie ad una vecchia legge, peraltro modificata in peggio.
Coloro che finora hanno pagato per intero il dazio della super inflazione da guerra sono stati i lavoratori dipendenti, sia pubblici che privati, circa 16 milioni di persone. Per costoro, se le cose non cambiano, l’inflazione ha determinato una forte e permanente riduzione del reddito. Le cose potranno cambiare solo con la nuova tornata contrattuale che sta per aprirsi.
La questione centrale allora non riguarda il prezzo delle materie prime ma se i sindacati dei lavoratori accetteranno la logica confindustriale implicita nella posizione a Davos, cioè se rinunceranno a reclamare il reddito perduto con l’inflazione, chiedendo sostanziosi aumenti contrattuali. Solo in questo caso infatti, l’inflazione che si conteggia a Davos si ridurrà. Se invece, i lavoratori dipendenti, come è probabile, cercheranno di recuperare il potere di acquisto perduto nel ‘22 e nel ‘23, l’inflazione riprenderà il suo cammino, come è successo in passato.
L’inflazione, infatti, è sempre l’espressione di un conflitto sociale e redistributivo. Il sogno del Presidente Bonomi è che i lavoratori rinuncino a richiede di recuperare il reddito falcidiato dall’inflazione. Ma perché i lavoratori dipendenti dovrebbero essere i soli a pagare il conto salato dell’inflazione? Non sarebbe né logico, né equo.
Insomma, i potenti dell’economia riuniti a Davos sperano che la classe dei lavoratori dipendenti, che esiste ancora nonostante le varie narrazioni, abbia la memoria corta e rinunci a battere cassa. Con l’inflazione ritorna il tema apparentemente scomparso del conflitto sociale. Negli anni Ottanta dalla spirale inflazionistica si è usciti non con l’arroganza imprenditoriale che vorrebbe scaricare il peso della crisi unicamente sul lavoro dipendente, ma attraverso la ben nota politica dei redditi; chiedendo cioè una qualche forma di moderazione economica a tutti gli attori sociali, stato, sindacato e imprese. Per replicare il successo del passato, occorrerebbe, tra le altre cose, anche una classe politica all’altezza delle problematiche del presente. Questa è una delle tante sfide del governo Meloni. Purtroppo la sua prima finanziaria non sembra andare in questa direzione.
Però, per favore, non si dica che l’inflazione futura sarà colpa delle irresponsabili richieste salariali dei lavoratori dipendenti, che finora sono stati fin troppo responsabili.