Dopo essere esplosa sui social come Estetista Cinica e aver trasformato una start up in una società da 62 milioni di euro di fatturato (dati del 2021), Cristina Fogazzi sperimenta nuovi approcci comunicativi con l’approdo sulla tv generalista: sarà tra gli sponsor del Festival di Sanremo (una cifra top secret) e ci spiega come mai "non ci metterà la faccia". Dal rapporto con la sua infanzia a come si sente oggi (cosa vuol dire "essere di successo"?). "Me li ricordo bene i protocolli utilizzati da certi marchi, negli anni ’90, franchising che promettevamo i miracoli umiliando le clienti: ti facevano sedere su una sedia piccola per farti sentire grassa, ti toccavano i rotolini di ciccia, le luci erano brutte per amplificare cellulite... Il mio cinismo sta nel ridimensionare aspettative e promesse"
A meno di un mese dall’inizio del Festival di Sanremo, Rai Pubblicità ha svelato i nomi dei primi partner commerciali, cinque brand che hanno confermato la loro presenza. La sorpresa è che tra questi c’è anche VeraLab, l’azienda fondata da Cristina Fogazzi. Dopo essere esplosa sui social come Estetista Cinica e aver trasformato una start up in una società da 62 milioni di euro di fatturato (dati del 2021), Cristina Fogazzi sperimenta nuovi approcci comunicativi con l’approdo sulla tv generalista. Un investimento economico importante (cifre top secret, per ora) oltre che uno switch importante per chi ha saputo imporre un modo nuovo di comunicare e una visione distante dai cliché, scegliendo le strategie più adatte al suo marchio. “Ma negli spot non ci sarà la mia faccia”, anticipa a FqMagazine, ripercorrendo la sua storia imprenditoriale. Da zero a cento partendo da un licenziamento, nel 2009, che le ha cambiato la vita.
VeraLab arriva in tv con uno spot e un debutto di fuoco come skincare partner di Sanremo. Sarà testimonial di sé stessa?
No, la mia faccia non c’è. Ho fatto una gara tra diverse agenzie e tutti quelli con cui parlavo mi dicevano che dovevo esserci. Io invece ho sempre pensato il contrario, a meno di un’idea rivoluzionaria.
Perché?
Perché l’effetto televendita mi mette i brividi. Il rischio cringe è altissimo quando i founder di un marchio mettono la faccia in una pubblicità. A parte Giovanni Rana, una straordinaria eccezione.
Il risultato finale dello spot di VeraLab?
Uno spot emozionale che mi piace molto. Sono curiosa di vedere la reazione delle persone, soprattutto di chi mi segue già perché è totalmente diverso da ciò che faccio sui social, dove spiego i miei prodotti, mi spalmo le creme, faccio vedere come funzionano.
Quanto ha investito la sua azienda per questa operazione?
Posso dire che si tratta di un investimento importante in termini economici. Ma era arrivato il momento giusto per farlo, partendo per altro dalla tv generalista nella sua massima espressione. Per me si tratta di un passaggio doppiamente importante perché è la prima volta che delego a qualcuno la comunicazione: fino ad ora, ho sempre deciso io come raccontare i miei prodotti.
Cosa che ha fatto imponendo un suo stile e scardinando i cliché su modelli di bellezza precostituiti. La scintilla qual è stata?
L’esperienza sul campo. Me li ricordo bene i protocolli utilizzati da certi marchi, negli anni ’90, franchising che promettevamo i miracoli umiliando le clienti: ti facevano sedere su una sedia piccola per farti sentire grassa, ti toccavano i rotolini di ciccia, le luci erano brutte per amplificare cellulite e difetti estetici. E le clienti correvano a comprare creme miracolose. Il mio cinismo sta nel ridimensionare promesse e aspettative.
Per esperienza sul campo intende gli anni nei centri estetici. Lei però non è mai stata un’estetista.
Non facevo le cerette, per intenderci, al massimo i trattamenti con le apparecchiature. Ed è lì che mi sono confrontata con centinaia di donne intelligenti, volitive, di successo che andavano in crisi perché la pelle dell’interno coscia si era rilassata. Ho visto donne devastate emotivamente dal confronto con modelli di bellezza inarrivabili, disperate perché non aderivano ad un ideale che per altro è finto.
La sua risposta a tutto ciò qual è stata?
Inizialmente mi sono sentita una scheggia impazzita, poi ho cominciato a dire ad alta voce che era tutto profondamente sbagliato: lo è promettere alla gente creme miracolose che tolgono le rughe, lo è sentirsi lo scarto del sistema perché ti cadono i capelli o ti vengono le braccia a tendina.
I suoi detrattori però diranno facilmente: critica il sistema ma con la cellulite delle altre ci paga il mutuo.
Ho comprato per una vita pancere contenitive e creme e so che i miracoli non esistono. E non prometto la felicità. Urlo alle persone di aprire gli occhi: vendo i miei prodotti ma spiego a cosa servono, a quali risultati possono portare e, quando posso, suggerisco un percorso di auto accettazione che serve a sganciarsi dal paragone con tizie e tizi che hanno dei corpi fake. Un conto è il supporto di una buona genetica, un altro quello di Photoshop.
Ma lei l’ha capito come se ne esce dall’ossessione per la perfezione?
Mi ha molto colpito, qualche tempo fa, un video in cui Belén Rodriguez raccontava di come, arrivata ai 30 anni, non si vedeva bella come prima: si guardava allo specchio, notava imperfezioni e qualche cedimento, e, ad un certo punto, ha compreso che non avere tempo per guardarsi allo specchio era l’unico segreto per uscire dal loop. Premesso che Belén è una strafiga, il suo esempio cosa ci dice? Che spostare l’attenzione altrove serve per limitare l’ossessione e smettere di aderire ad uno standard di bellezza imposto. Coltivare la passione per l’arte, il cinema, ci aiuta a capire che siamo fatti di tante cose: siamo colte, argute, intelligenti, brave a fare le crostate o anche a non fare nulla. Ma non siamo solo un corpo con le sue inevitabili imperfezioni.
Cristina Fogazzi, cresciuta a Sarezzo, 13mila abitanti in provincia di Brescia. Cosa sognava da bambina?
Non ricordo di aver avuto grandi sogni o chissà quali aspettative sul futuro. Ed è una cosa di cui mi capita spesso di parlare con la mia psicologa.
Nemmeno un ricordo vago?
Ad un certo punto volevo fare la maestra, poi la scrittrice. Ma è un sentore vago. L’unica certezza è che quando giocavo con le bambole io facevo sempre la zia: ho sempre saputo di non volere figli, al contrario di mia madre che mi ripeteva “diventerai una brava donna di casa”.
Come reagiva alle parole di sua madre?
Non mi interessavano perché non era ciò che volevo per me. Un marito, i figli, la villetta col giardino… quello era l’immaginario che dominava in provincia quando ero una ragazzina.
La provincia l’ha vissuta come un limite?
So che ripetevo sempre: “Io vivrò in città”. Oggi la globalizzazione ha cambiato tutto, ma all’epoca le valli lombarde non erano posti particolarmente illuminati. Sono cresciuta in Val Trompia, famosa per la fabbrica di armi Beretta; vicino a casa mia c’è Lumezzane, un paese dove un tempo c’erano più Ferrari che abitanti. Tutti stavano bene economicamente, si respirava una ricchezza sfacciata. Ricordo che in tutta la valle ci eravamo iscritti al Classico in due e di me dicevano: “Poverina, non sta bene, sta sempre in casa a studiare”.
Oggi di lei cosa dicono?
Non ne ho idea, sono sincera.
La caratteristica bresciana che più le è rimasta addosso?
Il sano pragmatismo e la cultura del lavoro.
Lei si considera una donna di successo?
Non mi sento tale perché non ho capito secondo quali parametri viene misurato il successo. Soldi? Notorietà? Credibilità? Sono semplicemente una donna che lavora tanto, a cui alcune cose vengono molto bene, altre invece no.
Nel suo percorso c’è un “anno zero”, il 2009: si occupava da tempo di start up e formazione nel settore dell’estetica, quando il gruppo per il quale lavorava chiuse i franchising e si ritrovò senza lavoro. Cosa fece?
C’era un piccolo centro estetico già pronto, a Milano, contrattai col proprietario e decisi di rilevarlo facendo un investimento minimo. Non incarno un modello aspirazionale, non ho una narrazione cinematografica da raccontare. Pensavo semplicemente: “Proviamo, se non andrà bene farò altro”. Mi alzavo la mattina, mi lavavo i denti e andavo a Milano su una Twingo, macchina di grande attualità per altro.
Il centro aprì in piena estate, con lei e un’estetista. In pochi anni si ingrandì, arrivarono i clienti famosi e ideò una sua linea di creme che nel 2022 ha fatturato 62 milioni di euro. Oltre alla competenza, hanno contato di più la fortuna o la determinazione?
Un mix delle tre cose. La competenza è fondamentale per arrivare a realizzare un buon prodotto ma la voglia di farcela e la fortuna sono importanti perché tutto s’incastri al momento giusto. Io non ho mai mollato, ho raggiunto i miei traguardi con una certa tigna e ho saputo sfruttare le opportunità che il digital offriva.
All’inizio spiegava la cellulite utilizzando dei palloncini.
Ho intuito che i social erano un mezzo per fare pubblicità al prodotto. Ma all’epoca Facebook era una landa desolata, un posto ancora praticabile. Su Instagram avevo 10 mila follower, facevo le foto col filtro Retro e fotografavamo i prodotti di piatto. Sono stata trasversale, mi sono fatta conoscere e ho costruito una credibilità che oggi è fondamentale. Soprattutto vista la quantità di ciarlatani che ci sono sui social.
Per strada, quando la riconoscono come la chiamano?
Dicono: “Guarda, c’è la Cinica”. Sennò Cristina.
I suoi amici chi sono?
Ho uno zoccolo duro di persone che resiste dall’infanzia, altri lo sono diventati in questi anni assurdi. Ho vissuto una vita strana e il mix di amicizie che ho coltivato ne è una rappresentazione plastica.
Le hanno mai proposto una docu-serie sulla sua vita?
Sì, ma ho declinato l’invito.
Perché?
Perché non mi interessa. Un conto è parlare della mia azienda o di come fare impresa, un altro è mettere in piazza il privato solo per soddisfare la curiosità altrui. Sono io a raccontare la mia vita nei termini in cui decido io, attraverso i social. Mostrarmi a prescindere non mi interessa, ho troppo pudore.
Lei però conosce bene i social e sa che sono diventati un palco per spettacolarizzare tutto, anche le proprie miserie.
Non guardo i reality perché mi fanno orrore ma non giudico chi partecipa. Così come non giudico chi parla della propria salute mentale sui social. Semplicemente non mi piace la spettacolarizzazione delle miserie altrui, si figuri delle mie. I soldi preferisco farli vendendo creme.
In un’intervista lei ha detto: “Ho avuto una famiglia talmente disfunzionale da non essere riuscita a inculcarmi niente. Sono cresciuta senza dovermi sentire sempre perfetta”. Quali fragilità si è invece portata dietro?
Tante ed è un discorso complesso da affrontare. L’aspetto peggiore è il dover fare i conti con tante ammaccature, che ho accumulato crescendo in un contesto non lineare. Il fatto di non aver mai voluto figli, ad esempio, l’ho sempre interpretato come il segnale di qualcosa di “ammaccato”. Magari a 70 anni, quando sarò sola all’ospizio, me ne pentirò ma non ho mai pensato a me immaginandomi madre in una famiglia tradizionale.
In questa complessità, è riuscita comunque a cogliere un aspetto positivo?
Positivo non so, interessante sicuramente. Ed è l’essere cresciuta con più libertà rispetto agli altri, semplicemente perché i miei genitori – che si sono separati – erano così presi dalle loro cose che non avevano tempo di occuparsi di me o di investirmi di un ruolo predefinito. E così non ho dovuto costruire la mia vita sulle loro aspettative.
Non ha subito il patriarcato.
Decisamente no, almeno non in famiglia.
A proposito delle polemiche sul colore dell’albero di Natale in piazza Duomo, sponsorizzato dalla sua VeraLab, ha detto rispondendo a Matteo Salvini: “Dobbiamo pensare di essere ancora vittime del patriarcato, perché il rosa è un colore da femmine?”.
Mi stupisce che il colore rosa venga ancora percepito come lezioso o frivolo. E non capisco perché in passato non abbiano rotto le balle per l’azzurro di una nota marca di alta gioielleria o per l’albero giallo – ribadisco, giallo – di una società di logistica che faceva pure male agli occhi (dice ridendo).
Delle parole di Salvini cos’ha pensato?
Mi ha fatto tenerezza perché il suo mi è sembrato un autogol clamoroso. Invece di pensare al colore, il ministro avrebbe potuto focalizzarsi sul fatto che l’albero questa volta era stato realizzato da un’imprenditrice italiana che dà lavoro a più di sessanta dipendenti e non da una multinazionale.
Non sono mancate poi le critiche per il costo dell’operazione: circa 700 mila euro.
Ma il commento “della piazza” ci sta, non mi urta. Sono sicura che se mi mettessi a spiegare il senso dell’operazione per il mio brand o se dicessi che con quella cifra è difficile immaginare qualsiasi piano di investimenti pubblicitari, cambierebbero idea.
Tra le domande che le fanno più spesso sui social c’è il “quanto fatturi”. Come se il fatturato – 62 milioni di euro nel 2021 – fosse il suo guadagno reale.
Sarebbe meraviglioso se incassassi tutto ciò che fatturo, ma non è così. Il guadagno dipende dagli utili: noi li abbiamo distribuiti, per fortuna, ma ci sono stati anni in cui non lo abbiamo potuto fare. Comunque, i bilanci di una società sono pubblici, non è un mistero né una vergogna rivelare il fatturato.
Da tempo si parla della possibile quotazione di VeraLab in Borsa. A che punto è arrivato il percorso?
Non ci siamo ancora, non è come dire “mi compro lo yacht”. È un cammino lungo, anche da un punto di vista finanziario. Ci piacerebbe arrivarci, non so se e quando ci riusciremo, ma sarebbe importante.
Ha mai ricevuto proposte di acquisizione da parte dei colossi del lusso?
No, ma ho avuto diverse proposte dal mondo della finanza. Aprire il capitale perché no, ma cedere il marchio non è nei miei piani, almeno per ora. Anche se in questi anni ho assistito ad acquisizioni clamorose come quella di Drunk Elephant, comprata da Shiseido per 840 milioni di dollari. Io non li valgo e poi sono troppo pigra per essere così ricca.
Potrebbe investire in opere d’arte, una delle sue passioni.
Compro un’opera l’anno, me la regalo quando trovo qualcosa che mi piace e che mi posso permettere.
Ha scritto anche un libro, uscito da pochi mesi: Il mio Grand Tour. Storie di luoghi, di arte e di ansia.
Dopo due anni in giro per l’Italia con il mio truck, ho raccolto quaranta luoghi del cuore, raccontati alla mia maniera e mettendoci dentro pezzi della mia storia personale. È stato anche un modo per raccontarmi e per dire che non necessariamente si “nasce con la camicia”: si può nascere con una camicia più o meno stropicciata se non strappata, ma alla fine trovare comunque la propria strada. Io la mia l’ho trovata.