Calogero Germanà, ex questore di Piacenza e collaboratore di Paolo Borsellino alla fine degli anni ’80, è il poliziotto che per ultimo interrogò Matteo Messina Denaro dopo l’omicidio di Vincenzo Luppino, esponente della Dc nel Comitato di gestione della Usl, assassinato a colpi di lupara a Castelvetrano nel 1987. Per quella convocazione Germanà, allora capo della Squadra Mobile di Trapani, subì un attentato rocambolesco eseguito da Messina Denaro, da Leoluca Bagarella e da Giuseppe Graviano, su preciso ordine di Totò Riina.
Ospite di Uno, nessuno, 100Milan, su Radio24, l’ex questore catanese, oggi in pensione, descrive minuziosamente l’attentato da lui subito il 14 settembre 1992 e tratteggia un ritratto del giovane rampollo della famiglia mafiosa capeggiata dal padre Francesco: “Era ‘fermo’ durante l’interrogatorio, cioè non si scompose. Si sentiva potente e sicuro di sé. Aveva questo delirio di onnipotenza che gli derivava dal fatto che sapeva giocare con la morte e che non aveva nessun rispetto per il prossimo. Adesso, però, che è in solitudine in galera, secondo me, la sua vita avrà una sospensione ed entrerà in un’angoscia terrifica“.
Germanà ribadisce quanto dichiarato in una intervista al Corriere della Sera (“Non lo perdonerò mai non per l’attentato a cui sono scampato ma per il povero Giuseppe Di Matteo”): “L’uccisione di Giuseppe Di Matteo appartiene a tutti noi. Io che sono nonno lo posso considerare mio nipote. Il suo omicidio è veramente una cosa fuori da ogni logica umana, è una cosa terrificante“.
Circa un possibile pentimento del boss mafioso, l’ex questore chiama in causa la figlia, Lorenza Alagna: “Lei potrebbe convincerlo a parlare. Secondo me, una figlia cosa potrebbe esprimere nei confronti del padre? Non credo odio. Quindi, l’amore della figlia per il padre potrebbe in qualche modo indurlo a confessare i suoi peccati. Questo signore non uscirà mai dalla galera, quindi l’unica cosa che gli resta è confessare, il che giuridicamente si chiama ‘pentimento'”.