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La Siria tenta la via diplomatica per recuperare il suo posto in Medioriente. È la fine della guerra?

di Claudia De Martino

La normalizzazione con Israele non è l’unica in corso nella regione Medio Oriente: anche la Siria, Stato pariah dal 2012, sta riallacciando buone relazioni diplomatiche con i Paesi della regione e recuperando il suo posto nella regione Medio Oriente, con grande vantaggio di entrambe le parti, gli Stati sunniti del Golfo, che puntano a giocare un ruolo nella ricostruzione postbellica del Paese, e Damasco che spera di intercettare, almeno, una parte degli investimenti esteri che occorrono alla sua economia per salvarsi da un imminente collasso.

La Federazione russa di Putin, militarmente impegnata in Ucraina e incapace al momento di fornire alla Siria i capitali necessari per lanciare la ricostruzione, vede di buon occhio il ripristino delle relazioni con gli altri Stati arabi della regione in vista di una reintegrazione, a pieno titolo, del governo di Bashar al-Assad tra le autocrazie mediorientali. Mentre persino gli Stati Uniti dell’Amministrazione Biden sostengono la riconciliazione in corso tra la Siria e i suoi ex nemici nella speranza che essa serva a riequilibrare l’area, a stemperare le tensioni interregionali e magari a sottrarre parzialmente Damasco all’egemonia russa.

L’iniziativa assunta dagli Emirati Arabi Uniti, Paese che si propone come avanguardia politica ed economica della regione, si prefigge l’obiettivo – che un tempo fu della Turchia di Erdogan – di avere ottimi rapporti con quasi tutti i Paesi dell’area, anche in guerra tra loro (sorvolando sul proprio coinvolgimento militare in Yemen) ed è stato, dunque, il primo Stato della regione a riaprire la propria ambasciata a Damasco nel lontano dicembre 2018 lanciando un segnale agli altri Paesi arabi sulla necessità imminente, dettata da un forte pragmatismo, di riabilitare il Presidente Bashar al-Assad e il suo seguito nell’impossibilità di eliminarlo militarmente e diplomaticamente e nel disinteresse abbastanza marcato degli Usa, che nella regione perseguono esclusivamente due obiettivi primari: la difesa di Israele e l’eventuale, ma sempre più remota, possibilità di un accordo sul nucleare iraniano.

Dal 2021 nove dei 22 membri della Lega Araba hanno seguito le orme degli Emirati condividendone le premesse di fondo: in particolare il Regno hashemita di Giordania e Paesi del Maghreb come l’Algeria e la Tunisia, senza contare Paesi come l’Oman, che non hanno mai interrotto le proprie relazioni diplomatiche con Damasco, e importanti potenze regionali come la Turchia, esterna alla Lega araba, il cui ministro degli esteri ha accettato di incontrarsi con il suo omologo siriano in un vertice trilaterale a Mosca lo scorso dicembre.

Unica eccezione regionale rimane il Qatar, tradizionale sostenitore dei movimenti afferenti alla Fratellanza Musulmana, ormai praticamente ovunque repressa e fuoriuscita dall’area della legittimità politica, con le eminenti eccezioni della Turchia e della Giordania.

Ogni Paese della regione ha un interesse nazionale specifico per riallacciare buone relazioni con la Siria: la Giordania, ad esempio, è in preda a una crisi economia senza precedenti ed è interessata a un eventuale rimpatrio di rifugiati siriani presenti in gran numero sul suo territorio (675.000 secondo i dati ufficiali Unchr a cui si sommano molti rifugiati non registrati), nonché a instaurare una cooperazione più stretta con la Siria in materia di lotta alla droga, in particolare per stemperare il commercio di captagon, una droga sintetica con funzioni antidepressive derivata da amfetamina e caffeina molto diffusa nei Paesi arabi, di cui il regime siriano e la famiglia Assad stessa sono diventate le principali produttrici e che transita regolarmente attraverso i sui confini, come rivelato da un’inchiesta del New York Times.

La normalizzazione in atto è ovviamente fortemente caldeggiata da Damasco, la cui economia è al collasso e alla ricerca disperata di investimenti esteri, sia a causa delle sanzioni europee e americane – un bando sulle esportazioni di petrolio, limiti agli investimenti, un congelamento delle riserve della Banca centrale siriana ritenute dall’Unione Europea e sanzioni personali rivolte a oltre 300 prominenti figure vicine al regime – che per cause endogene, come la svalutazione della lira dovuta alla guerra, che ha portato al deprezzamento totale dei salari dei dipendenti pubblici, la carenza delle infrastrutture, soprattutto energetiche, che non assicurano i servizi pubblici (ad esempio la fornitura di elettricità) che per poche ore al giorno, e gli alti tassi di povertà endemica, pari a circa il 90% della popolazione.

Il messaggio pragmatico che i Paesi arabi intenzionati a normalizzare le proprie relazioni con Assad lanciano è che la guerra civile araba sia ormai finita. Assad sia stato salvato dall’intervento russo del 2015 e non vi sia più alcuna possibilità di detronizzarlo e che, date le condizioni, non resti altra possibilità che scendere a patti con la sua presenza e negoziare con lui.

Tuttavia da questo processo, nominalmente votato alla riconciliazione regionale, sono escluse due grandi minoranze: quella dei 600.000 curdi siriani, ormai autonomi dal 2012, i cui territori con la città di Kobane – mitico avamposto della guerra contro il Califfato islamico nel 2014 – rischiano di essere le prime vittime di un potenziale accordo Siria-Turchia per la spartizione del confine settentrionale, in cui l’obiettivo primario di Erdogan sarà far sparire qualsiasi autonomia curda alle sue frontiere, e i 7 milioni circa di rifugiati siriani, che non potranno fare mai ritorno in una Siria in cui il loro principale nemico e oppressore, il regime di Bashar al-Assad, sarà stato riabilitato da tutte le potenze regionali con il beneplacito Usa nell’immunità generale per i crimini commessi e un assegno in bianco per quelli ancora da compiere.