Esperienze poco formative e senza legami con l'indirizzo di studio. In molti casi inesistenti misure di sicurezza. I racconti a un anno dalla morte del giovane Udine, diventato un simbolo dell’alternanza scuola lavoro che non funziona. “Mi è caduta una mensola in testa mentre lavoravo in un vivaio”. O ancora “Facevo un’ora e venti di mezzi pubblici per andare a svuotare gli uffici”, “In una struttura che doveva occuparsi di aeronautica noi messi a rastrellare”. Alle 10 presidio davanti al ministero dell'Istruzione
“Stavo scaricando con un carrello delle piante sulla mensola di un vivaio e una mi è caduta in testa. Non avevo il casco e mi sono tagliato la fronte. Quando sono andato in bagno a sciacquarmi il sangue, il titolare si è fatto trovare fuori dalla porta chiedendomi perché avessi smesso di lavorare”. Marco, nome di fantasia di uno dei partecipanti al collettivo Studenti Tzunami, frequenta l’ultimo anno di un Istituto tecnico agrario in provincia di Milano e, a settembre, ha dovuto svolgere il Pcto (Percorso per le competenze trasversali e di orientamento), più comunemente conosciuta come alternanza scuola-lavoro. Un’esperienza obbligatoria, ma che spesso si rivela poco formativa, distante dal percorso di studi, e, nei casi più estremi, espone gli studenti a rischi inutili. Il caso-simbolo è quello di Lorenzo Parelli, il 18enne morto schiacciato da una trave metallica durante uno stage in una fabbrica dell’Udinese, lo scorso 21 gennaio. A un anno di distanza gli studenti scendono in piazza a Roma, con un presidio davanti al ministero dell’Istruzione, e in diverse altre città, per ricordare lui e le altre vittime: Giuseppe Le Noci e Giuliano De Seta. Ma anche per chiedere al governo di rivedere le regole dell’alternanza scuola lavoro.
Un’ora e venti di mezzi per fare un trasloco – Niccolò ha 18 anni e vive in provincia di Firenze. Frequenta però un Istituto tecnico tessile nella città di Prato. Per arrivare nell’azienda dove doveva svolgere il Pcto, lo scorso giugno, impiegava più di un’ora e venti con i mezzi pubblici. “Per la prima settimana mi hanno fatto mettere in ordine dei fogli di carta – racconta – Dopo quindici giorni però ci hanno comunicato che la ditta dove lavoravamo si sarebbe trasferita. Perciò ci hanno messo a ripulire gli uffici delle segretarie, a svuotare gli scaffali e a sbaraccare i mobili e gli scatoloni”. Un vero e proprio trasloco “che non ha nulla a che vedere con quello che studio”. In un paio di occasioni il titolare ha chiesto a Niccolò e a un suo compagno di spostare anche un armadio: “C’erano con noi due tecnici, ma le condizioni di sicurezza non erano eccezionali – dice – Mi hanno fatto usare una specie di transpallet e una volta l’armadio mi è anche caduto sull’asfalto. Fortunatamente non c’era nessuno davanti”. Per le due settimane mancanti, il 18enne è stato trasferito in un’altra fabbrica, “ancora più lontano”. Qui però almeno ha potuto vedere il processo di rifinitura dei tessuti, ma soltanto per una giornata. “Per il resto del tempo ci hanno messo a incollare tessuti a pezzi di cartone, per portarli alle fiere e farli vedere – spiega – Alla fine della settimana ci davano un contentino di 50 euro per farci stare zitti e non lamentarci. Quest’esperienza non mi ha aiutato per niente a capire se l’indirizzo tessile sarà la mia strada”.
“Ho fatto quello che gli impiegati non avevano voglia di fare” – Giuseppe, anche lui 18 anni, frequenta un Istituto tecnico economico a Busto Arsizio, in provincia di Varese. Per il Pcto del quarto anno ha lavorato per due settimane in uno studio di commercialisti. Avrebbe dovuto aiutare nelle attività di contabilità, ma si è ritrovato a fare quello che “gli impiegati non avevano voglia di fare – racconta – Principalmente erano lavori di fascicolazione e riordinare il magazzino”. La formazione è stata quasi nulla: “Non sono stato minimamente seguito – racconta – Ho visto la mia tutor, cioè quella che avrebbe dovuto aiutarmi durante il percorso e valutarmi, solo l’ultimo giorno, quando ha dovuto chiedermi il nome da inserire nel documento”. Per Giuseppe comunque l’esperienza è stata utile, anche se “solo al datore di lavoro: gli ha permesso di risparmiare soldi e tempo. Per questo puntualmente ogni due settimane chiedono ragazzi non pagati – afferma – Non è lo stesso per chi spera di capire come funziona il mondo del lavoro o come viene applicata la materia che studia”.
“Hanno spalato foglie per una settimana” – Poco formativa è stata anche l’esperienza di una classe di un Istituto tecnico aeronautico di Milano, raccontata dal collettivo Studenti Tzunami. “Una decina dei miei compagni sono stati mandati in una struttura che doveva essere affine al nostro percorso di studi – racconta uno dei giovani aderenti – Dopo un’attesa di tre ore, dalle 8 alle 11, fuori al freddo hanno detto loro, nonostante i documenti firmati, che non c’era posto per tutti”. Così i giovani, tutti minorenni, sono stati messi “per sette giorni a spalare le foglie con tre rastrelli e pochi guanti. Quindi praticamente a mani nude – spiega – Quando hanno chiesto che gli fosse assegnato un altro compito, il titolare gli ha detto che se non avessero continuato a spalare le foglie, non avrebbe firmato il Pcto”.
“Il capo guardava cosa facevamo dalle telecamere” – “L’alternanza è stata principalmente un’esperienza frustrante” per Marco (nome di fantasia). I disagi, oltre all’infortunio grave scampato sono stati molti. “Quando ho iniziato era settembre e le temperature erano ancora alte. Ci costringevano a passare molte ore nella serra, con un camice pesante addosso e solo una decina di minuti di pausa per fumare una sigaretta”. Allo studente, all’epoca ancora minorenne, non sono stati forniti dispositivi di protezione individuale, a parte i guanti da lavoro: “Ho dovuto comprare di tasca mia le scarpe antinfortunistiche, per poi sentirmi dire anche che non andavano bene – spiega – Con noi il capo era intransigente su tutto. Guardava cosa facevamo dalle telecamere e veniva a sgridarci davanti a tutti”. L’esperienza lavorativa non è stata formativa: “Mi hanno messo a spazzare per terra o a lucidare le foglie delle piante, oppure a svuotare i carrelli olandesi per mettere le piante con gli scaffali”, attività che ha causato il ferimento con la mensola. È mancato anche il controllo degli insegnanti, “ma li capisco, se nelle ore in cui lavoriamo hanno lezione, non possono venire ad assicurarsi che noi stiamo bene. È l’intero sistema che non funziona”.