Una domanda, nelle ultime ore, sorge spontanea: a quale cultura fa riferimento Uto Ughi quando afferma che i Måneskin sono un’offesa alla cultura e all’arte? A quella alta, accademica, salottiera e abbottonata che da decenni abita i suoi concerti? A quella entusiasta, sboccata, irriverente e appassionata dei grandi raduni pop/rock? O ancora quella intima, ritirata, un po’ snob e concentrata dei jazz club? Per non proseguire ancora oltre e dirla con Timothy Leary, a quale reality-tunnel fa riferimento Uto Ughi?
Una domanda che dovrebbe sorgere spontanea a chi, come il sottoscritto, dà ormai per acquisito che le culture siano molteplici, variegate, che ognuno viva all’intero di un proprio reality-tunnel che però, per non alimentare false credenze e inutili convinzioni, di tanto in tanto farebbe meglio ad abbandonare. In Italia invece i reality-tunnel sono più simili ai compartimenti stagni, incapaci cioè di comunicare fra loro, incapaci di fare esperienza l’uno dell’altro persino all’interno di un medesimo settore: un Paese, il nostro, di continue divisioni e conseguenti, inutili, polemiche da due soldi, di quelle che in paesi culturalmente più avanzati difficilmente si fa esperienza e volentieri si fa a meno.
Polemiche dunque di scarso livello a prescindere che piacciano o non piacciano i Måneskin, una band che, a dirla tutta, non mi fa saltare sulla sedia, ma che ha al tempo stesso tutto il sacrosanto diritto di fare quello che fa cantando, travestendosi, suonando e, udite udite, persino urlando! Eh sì, perché proseguendo nella sua speciale e approfondita disamina (si scherza, eh!), Ughi, pensando forse di correggere il tiro, ha pure aggiunto: “Non ce l’ho particolarmente con i Måneskin, ogni genere ha il diritto di esistere. Però quando fanno musica, non quando urlano e basta”.
Cosa dire dunque di buona parte della musica rock, di quel rock urlato, gridato, strillato e sgolato con cui son cresciuti giovani e meno giovani negli ultimi 80 anni? Tutta spazzatura? Tutta roba da buttare al macero? O sarebbe forse meglio buttare al macero le esecuzioni di grandi, stimabilissime vecchie glorie musicali che in tarda età, e nonostante l’evidente decadimento performativo, si ostinano a occupare spazi che sarebbe forse meglio lasciare a funamboliche e capacissime nuove leve?
Ma ancora, per restare nel territorio delle domande: a chi fa bene l’ennesima polemica del genere? A Uto Ughi certamente, visto che ora sono tutti al corrente del suo nuovo programma di concerti. Ai Måneskin pure, che non devono certamente attendere la visibilità di Ughi ma che ne escono, ancora una volta, da vittime innocenti, dunque vincenti. Ma al popolo? Alla mentalità di un Paese già terribilmente arretrato sotto ogni parametro culturale possibile?
Ecco dunque la doppia occasione sprecata: la prima per tacere, non andando ad alimentare divisioni e scissionismi con punti di vista che negli USA o in Gran Bretagna farebbero solo ridere i polli; la seconda per dar voce, con autorevolezza ai più preclusa, a quella che, se vogliamo, è una delle principali cause del decadimento musicale italiano, la totale mancanza di studio, negli istituiti liceali, della storia della musica. Perché è lì, come Ughi sa, che si formano le menti delle nuove generazioni, è lì che si agisce sulla loro sensibilità, è lì e solo lì, insieme alla sorella storia dell’arte, che li si avvicina al bello, un bello che però non è solo classico, barocco o romantico.
Perché dunque non impegnarsi attivamente, col proprio peso mediatico e la propria capacità d’incisione, andando a fare pressioni sul mondo della politica parlamentare per far sì che la proposta di legge n. 1553, per l’introduzione della storia della musica nei nostri licei, venga finalmente trasformata in vera e propria legge? Perché non agire in modo incisivo invece di alimentare dibattiti di dubbia qualità?
È tutta qui, in simili episodi ma a prescindere da Ughi, la desolante mancanza di serietà di un Paese che, anche ai piani più alti della sua vita culturale, ama rigirarsi nelle polemichette da due soldi, che da secoli non ha più un’idea di futuro, che da tempo non progetta più nulla e più nulla ha da offrire. Un Paese nel quale, per racchiuderla in una massima, chi fa classica non fa jazz, chi fa jazz non fa pop, chi fa pop non fa nulla.
Un Paese mille anni luce lontano dalle libertà di movimento, espressione e produzione dei mondi musicali americano o britannico, di galassie nelle quali il musicista difficilmente vive di scissionismi e molto più facilmente, serenamente e abitualmente sceglie di spostarsi da un settore all’altro della produzione musicale.
Un Paese, per concludere, in cui simili polemiche, oltre a nuocere gravemente alla salute, hanno anche, una volta per tutte, ampiamente rotto le scatole.