Andrea Bonafede era un uomo d’onore riservato di Matteo Messina Denaro. È quello che scrive il gip di Palermo, Alfredo Montalto, nell’ordinanza di misura cautelare a carico del geometra che ha “prestato” la sua identità al boss di Castelvetrano. A sette giorni dalla fine della latitanza del boss delle stragi, dunque, finisce in carcere anche il suo principale favoreggiatore: dopo l’autista Giovanni Luppino, viene arrestato pure l’uomo che gli “consapevolmente ceduto la propria identità e gli ha consentito di preservare il proprio status di latitante e conseguentemente continuare a ricorprire il proprio ruolo direttivo nell’associazione mafiosa”, scrive il giudice.
L’arresto dell’alias – Arrestato nella serata di lunedì dai carabinieri del Ros, che sono andati a prenderlo nella casa della sorella a Tre Fontane, una frazione marinara di Castelvetrano, il geometra è il nipote di Leonardo Bonafede, boss di Campobello di Mazara: una parentela che trova spazio nell’ordinanza con cui il gip ha accolto la richiesta della procura di Palermo, guidata dal capo Maurizio De Lucia, con le indagini coordinate dall’aggiunto Paolo Guido, dal sostituto Piero Padova e condotte dal Ros dei Carabinieri. “Bonafede ha un’estrazione familiare compatibile con il ruolo di partecipe dell’associazione mafiosa (e che, allo stesso tempo, spiega perché Messina Denaro Matteo si sia potuto a lui rivolgere), dal momento che egli è nipote (figlio del fratello) del noto Bonafede Leonardo, già ‘reggente‘ proprio della famiglia mafiosa di Campobello di Mazara che ha protetto, quanto meno negli ultimi anni, la latitanza dello stesso Messina Denaro Matteo consentendogli di svolgere appieno il ruolo di capo indiscusso della consorteria di Cosa nostra nella provincia di Trapani”. Al geometra di 58 anni gli investigatori non contestano il favoreggiamento ma l’associazione mafios: “Si è in presenza, in sostanza, sia pure, in termini di gravità indiziaria di un’affiliazione verosimilmente riservata di Bonafede per volontà del Messina Denaro“, si legge sempre nell’ordinanza. Insomma un affiliato segreto a Cosa nostra, fidatissimo del boss delle stragi.
La versione di Bonafede – Sono due le circostanze che hanno tradito Bonafede. Nel suo interrogatorio, infatti, il geometra di Campobello ha raccontato ai pm “di avere incontrato casualmente Matteo Messina Denaro circa un anno prima per strada a Campobello e di avere ricevuto in quell’occasione una prima richiesta di aiuto in ragione dei gravi problemi di salute di cui il latitante affermava di soffrire”. Quindi, Bonafede sostiene di avere “nuovamente incontrato il latitante, previo accordo in tal senso, un paio di giorni più tardi e di avere, anche in tale occasione, ricevuto una nuova richiesta di aiuto, che sarebbe dovuto consistere nella cessione dei documenti”. A quel punto ha spiegato di aver ceduto la sua tessera sanitaria e la sua carta d’identità al latitante, che dopo aver apposto la sua foto sul secondo documento, avrebbe restituito l’originale al legittimo proprietario. Al momento dell’arresto, però, “la carta d’identità di Bonafede è stata trovata in possesso di quest’ultimo“. E quindi, sottolinea il gip, “risulta smentita l’affermazione secondo la quale Messina Denaro avrebbe restituito il documento a Bonafede”. Ma soprattutto il giudice sottolinea come già nel novembre del 2020, per sottoporsi all’operazione relativa al tumore al colon all’ospedale Abele Ajello di Mazara del Vallo, Messina Denaro aveva usato l’identità di Bonafede: “E dunque – scrive il giudice – quasi due anni prima rispetto al presunto primo incontro con Bonafede che quest’ultimo, come detto, colloca intorno alla metà del 2022 cioè circa sei mesi prima dell’arresto”. Secondo le indagini, tra l’altro, la cessione della “cessione di un documento di identità sul quale apporre la propria fotografia risalgono ad un periodo risalente almeno al 27 luglio 2020 (epoca di acquisto della prima autovettura) o comunque al 13 novembre 2020 (epoca del primo intervento subìto da Matteo Messina Denaro sotto le mentite spoglie di Andrea Bonafede)”.
Il gip: “Ecco su cosa non è credibile” – Ma non solo. Il giudice non crede al geometra anche perché “non è di certo minimamente credibile che il latitante notoriamente più pericoloso e più ricercato d’Italia, che pure, come dimostrato dalle innumerevoli indagini di questi anni finalizzate alla sua cattura ha potuto sempre disporre di un’attentissima ed ampia cerchia di soggetti che gli hanno consentito di proseguire la sua latitanza e nel contempo le sua attività di direzione dell’associazione mafiosa ‘Cosa nostra’ quanto meno nell’intera provincia di Trapani, si sia ad un certo momento affidato ad un soggetto occasionalmente incontrato, non affiliato e che non vedeva da moltissimi anni, per coprire la sua identità, soprattutto nel momento in cui aveva necessità di entrare in contatto con strutture pubbliche sanitarie (con conseguente elevato rischio di essere individuato come in effetti è poi avvenuto il 16 gennaio 2023)”.
Due auto per il boss – Bonafede, sentito dagli investigatori, ha detto anche altro. Ha confermato di aver acquistato lui la casa del latitante in via Cb 31, cioè la strada che per tutti a Campobello è vicolo San Vito, ricevendo circa 15mila euro in contati dal boss, che aveva poi versato sul suo conto corrente postale. Sempre grazie a Bonafede, Messina Denaro aveva potuto usare due auto: una Fiat 500 Lounge e un’Alfa Romeo Giulietta. Gli inquirenti ci arrivano perché il 19 gennaio, tre giorni dopo l’arresto, era arrivata “la meritevole segnalazione di un rivenditore di autovetture”, cioè Giovanni Tumminello, sentito due giorni fa dagli investigatori. Segnalazione che, sommata all’acquisizione di alcuni documenti, provava come le macchine usate dal latitante (la 500 era stata data in permuta per acquistare la Giulietta nel gennaio 2022) erano intestate all’anziana madre di Bonafede, che nei giorni scorsi si è vista sequestrare la casa dove vive con una delle figlie. Il commerciante di auto ha smentito che l’Alfa Romeo fosse stata pagata in contanti, spiegando che la transazione era stata tracciata: in questo modo gli inquirenti hanno scoperto che Bonafede aveva consentito a Messina Denaro anche di attivare una carta bancomat.
Le ricette del dottor Tumbarello – Anche nella questione delle prescrizioni mediche Bonafede ammette di aver avuto un ruolo, raccontando di “avere chiesto a un medico di base con studio a Campobello, di emettere alcune ricette nell’interesse di Messina Denaro precisando tuttavia di non aver rivelato al medico l’identità del soggetto interessato alle prestazioni oggetto delle ricette”. Si tratta del dottor Alfredo Tumbarello, il medico di base sospeso dalla massoneria dopo essere finito indagato per procurata inosservanza di pena aggravata. A sentire Bonafede, dunque, il medico avrebbe prescritto esami e terapie per curare il tumore, consapevole che non fossero per il suo assistito, ma ignorando la vera identità del malato oncologico. Una ricostruzione che gli inquirenti devono verificare.
“Il covo lo conoscono solo i fedelissimi” – Nel provvedimento il giudice ricostruisce come le indagini siano dirette all’individuazione del “covo” e dei fiancheggiatori dell’ex inafferrabile. E lo fa citando implicitamente la mancata perquisizione della villa dove abitava Totò Riina, il 15 gennaio del 1993, data dell’arresto. “Le dette indagini in particolare sono state innanzitutto dirette come sempre accade ed è accaduto (tranne che in noto ed eclatante caso che, appunto, per la sua anomalia ha dato luogo ad innumerevoli vicende giudiziarie ancora non definitivamente conclusesi) alla ricerca ed individuazione dei luoghi in cui Messina Denaro trascorreva la latitanza e, nel contempo, alla individuazione dei soggetti a lui più vicini”. Non è l’unica citazione di quella vicenda. Anche quando deve spiegare l’importanza del ruolo di “autista” del boss latitante, il gip ricorda che “l’incarico viene assegnato a persone di massima fiducia, in grado di garantire segretezza, sicurezza ed affidabilità degli spostamenti (non pare esagerato definire emblematica la vicenda di Salvatore Biondino, arrestato unitamente a Totò Riina il 15 gennaio 1993)”. E ancora, il gip sottolinea come sia importante il fatto che Bonafede conoscesse il covo di Messina Denaro, in vicolo San Vito. “L’esperienza dell’arresto di tutti i più importanti latitanti di Cosa nostra – scrive – insegna che i soggetti di vertice di tale organizzazione, per evidenti ragioni di sicurezza personale, tendono ad escludere dalla conoscenza del “covo” ove da latitanti si rifugiano persino la gran parte degli associati mafiosi, limitando, piuttosto, tale conoscenza ad una cerchia più ristretta e più fedele di coassociati. Ciò, ad esempio, è avvenuto per Riina (il cui “covo” era ignorato persino da Provenzano), per lo stesso Provenzano, per i fratelli Brusca, per i fratelli Graviano e per Bagarella“. In tutti questi casi il “covo”, prosegue il giudice, “sino al momento dell’arresto di chi l’occupava, è stato conosciuto soltanto da pochissimi soggetti, tutti, comunque, formalmente o di fatto, affiliati all’organizzazione mafiosa per l’ulteriore sicurezza che deriva dal vincolo associativo e dalle note conseguenze per chi lo viola”.
Come è nata l’indagine – Nel documento di 17 pagine, il gip poi conferma che grazie alle intercettazioni nei confronti “dei familiari più stretti del latitante“, si apprendeva come il boss fosse “molto probabilmente affetto da patologia oncologica“. A quel punto era partita una “complessa manovra investigativa finalizzata a verificare se vi fossero soggetti residenti nella Sicilia occidentale che potessero corrispondere al profilo” del latitante. Ovvero Andrea Bonafede, che “il 13 novembre 2020 risultava essere stato sottoposto ad operazione chirurgica destinata alla rimozione di un tumore maligno Abele Ajello di Mazara”. Dopo aver acquisto i dati del cellulare del vero Bonafede, però, “emergeva la produzione di traffico telefonico in territori non compatibili con quelli dove il presunto paziente Bonafede si sarebbe dovuto trovare per sottoporsi ai delicati interventi chirurgici“. E quindi il geometra di Campobello era al telefono in luoghi diversi da quelli dove, in teoria, si stava sottoponendo a un intervento chirurgico. Da quel momento è partita l’indagine che ha portato all’arresto dell’ultimo boss delle stragi.