Sono le due di un pomeriggio di metà marzo di nove anni fa. Tra qualche minuto scatteranno finalmente le fatidiche 48 ore dopo le quali ci lasceranno liberi. Io, il mio compagno e la nostra prima figlia, che sta per compiere due giorni, siamo già seduti sul letto, la valigia è chiusa, le giacche pronte per essere infilate. Non vediamo l’ora di tornare a casa e ricominciare da zero la nostra nuova vita a tre, che qui è iniziata male, anzi, malissimo. Manca solo una firma, quella del pediatra che ci deve dimettere. Ed eccolo che arriva, questo sessantenne in camice bianco che è a capo del reparto che ci aveva dato il benvenuto al mondo. Si appoggia al letto dove lo attendiamo impazienti, mi guarda con un’aria che oscilla tra la compassione e il rimprovero, poi chiede senza ritegno: “Signora, che intenzioni ha con questa bambina?”.

È lì, in quella frazione di secondo che le parole di Fabio e di Luciana, il meraviglioso ostetrico e l’infermiera con cui avevo seguito il corso preparto in una Asl romana, mi sono salite su, come un veleno che dovevo sputare, per me e per tutte le altre che avevano avvertito: “Preparatevi, vi tratteranno male”. Così, con l’espressione e la voce più ferma che abbia mai avuto in vita mia, al pediatra ho risposto serena: “Che intenzioni ho? Ho cambiato idea, non la voglio più. Ci pensate voi?”.

Solo lì, di fronte a quella madre che lo stava palesemente prendendo in giro, deve avere intuito che qualcosa era andato storto. E per il successivo quarto d’ora è dovuto rimanere immobile ad ascoltare il flusso della mia coscienza che cercava di scuotere la sua: “Come fa a chiedermi che intenzioni ho? Che intenzioni vuole che abbia? Voglio che stiamo bene, io e la mia bambina. Ma qui dentro sono due giorni che nessuno mi chiede come va. Arrivano, mi strizzano i capezzoli come fossero dei rubinetti e mi guardano schifate: ‘Non esce niente, smettila’. Chiedo di aiutarmi e mi dicono che le mie tette non vanno bene, che forse al secondo figlio ci riuscirò, ma che adesso devo subito darle un biberon perché la bambina è disidratata. Mi guardano male quando provo a riattaccarla, insistono a chiedermi: ‘sicura che non le vuole dare proprio niente niente?’ Ma non c’è stata una persona che abbia provato ad aiutarmi, a spiegarmi come si fa, a sostenermi mentre ci provavo”.

Il pediatra non ha avuto un granché da ribattere, si è messo a spiegarmi la questione del calo fisiologico e un’altra marea di cose che non c’entravano nulla con quello che avevo tentato di fargli capire. Mi infastidiva essere trattata come una “fissata” con l’allattamento a tutti costi, perché non lo ero. Semplicemente volevo provarci, ma sfido chiunque a riuscirci con una sconosciuta che strizza i capezzoli insultandoti.

Si è fragili, in quel momento. Si è stanche, come lo era la giovane donna che Roma ha perso suo figlio in ospedale, piombata nel sonno mentre lo allattava.

Qualche settimana prima, quando avevo sentito Fabio e Luciana pronunciare quel sinistro consiglio – “Preparatevi, vi tratteranno male” – , li avevo presi sotto gamba. Avevo pensato anch’io che fossero dei “fissati”, che anche se a fine degenza ti regalavano ciucci e campioni di latte in polvere delle più note case farmaceutiche avrei comunque ricevuto assistenza e sostegno, che nessuno mi avrebbe potuto trattare male in quel reparto tutto fiocchi rosa e azzurri. E invece ancora oggi li ringrazio: se ho avuto la forza di uscire da lì con il sorriso, nonostante tutto, è grazie alla corazza che mi avevano provvidenzialmente appoggiato sopra al pancione.

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