Un intervenuto lungo ma “smemorato” quello di Silvio Berlusconi a sostegno di Carlo Nordio, l’ex procuratore ora ministro della Giustizia, che ha ingaggiato una sorta di guerra santa contro le intercettazioni sollevando perplessità anche tra i suoi stessi alleati. Salvo vedersi “blindare” dalla stessa premier Giorgia Meloni. Ma quello dell’ex premier è un sostegno che sembra non tenere conto del passato. Berlusconi sembra aver dimenticato di aver tentato o di essere riuscito a intervenire più volte sulla giustizia. In un caso anche permettendo la pubblicazione di una intercettazione non depositata e che di fatto era stata trafugata. La conversazione captata tra Giovanni Consorte, allora ad di Unipol, e Piero Fassino, segretario dei Ds, nell’ambito delle indagine sulle scalate bancarie.
Lunghissima la lista delle leggi ad personam, altrettanto impegnativo l’elenco delle frasi contro le toghe, anche in politica. Anche oggi quando dice: “Alcuni di questi magistrati sono passati direttamente dai loro uffici giudiziari alle aule del parlamento, nelle file dei Cinque Stelle”: dimenticando che uno dei primi magistrati eletti in uno dei momenti più intensi della storia giudiziaria fu Tiziana Parenti, già sostituto procuratore del pool di Mani Pulite che dopo le dimissioni e una parentesi nell’avvocatura aderì proprio a Forza Italia, arrivando alla Camera nel 1994. E fa sorridere che proprio chi definì la magistratura una metastasi parli ora la chiami “sana”.
Più di tutti però nel discorso di oltre 5 minuti quello che salta all’orecchio è il tema intercettazioni – considerate unanimemente strumenti necessari in tutti i settori di indagine non solo mafia e terrorismo – che fa pensare che Berlusconi non ricordi bene cosa sia successo in passato. Il leader di Forza Italia dice: “Nessuno ha mai pensato di impedirne o di limitarne l’utilizzo per le indagini di mafia o di terrorismo. Quella che invece ci ripugna, quella che combatteremo sempre con tutte le nostre forze, è l’idea che tutti gli italiani possano essere trattati come sospetti mafiosi o sospetti terroristi. È l’idea che la libertà, la privacy, l’intimità di ciascuno di noi, delle nostre case, delle nostre conversazioni, possa essere violata con la massima facilità. Che la tecnologia, con la scusa di prevenire i reati, possa controllare e soffocare la nostra libertà“. Fu proprio Berlusconi, come ha scritto la Cassazione nella sentenza sul Nastro Unipol, a dare il via libera “determinante” alla pubblicazione sulle pagine de Il Giornale dell’intercettazione della telefonata tra l’ex segretario dei Ds, Piero Fassino, e l’allora amministratore delegato di Unipol, Giovanni Consorte nella quale l’ex sindaco di Torino pronunciò la famosa frase: “Abbiamo una banca“. Quella intercettazione era segreta in quanto non depositata ed era stata di fatto “trafugata” da due imprenditori che la offrirono a Berlusconi. Intercettazione inoltre che non era penalmente rilevante. A portarla ad Arcore due imprenditori tra cui l’amministratore delegato della Rcs, grande azienda che forniva a molte procure italiane le macchine per le intercettazioni telefoniche.
I giudici di primo grado avevano condannato Berlusconi a un anno per concorso in rivelazione di segreto d’ufficio e a risarcire il politico. Le parole di Fassino – scrivevano i giudici – erano rimaste impresse nella memoria collettiva “da rimanervi dopo anni” e capace di “dispiegare quegli effetti sull’opinione pubblica dei quali hanno riferito vari testi”. In secondo grado invece i giudici avevano dichiarato la prescrizione del reato e nelle motivazioni aveva messo nero su bianco su come da quella pubblicazione Berlusconi aveva tratto “vantaggio nella lotta politica”. Secondo i magistrati della corte d’appello la telefonata, pubblicata il 31 dicembre 2005, permise alle elezioni 2006 al centrodestra di realizzare un’insperata rimonta fino alla sconfitta per soli 24mila voti del centrosinistra. L’intercettazione venne pubblicata dopo un passaggio di mano tra due imprenditori e dopo un incontro avvenuto il 24 dicembre 2005 ad Arcore alla presenza di Paolo e Silvio Berlusconi. In cui l’ex premier diede il suo assenso. L’ex premier in primo grado era stato condannato a un anno di reclusione per concorso in rivelazione di segreto d’ufficio, mentre al fratello Paolo sono stati inflitti 2 anni e 3 mesi per ricettazione. In appello fu sancita la prescrizione. Un’incisione, quella pubblicazione, non sulla vita di una singola persona, ma di un intero paese. La Suprema corte il 31 marzo 2015 aveva confermato la prescrizione per i fratelli Silvio e Paolo Berlusconi, allora editore del quotidiano.