di Piero Graglia
Prima di tutto la mobilità. No, non quella studentesca, e neppure quella dei docenti, bensì quella dell’amministratore della Università. Che ne pensate di una bella Rolls Royce Phantom? Sicuramente la rappresentanza è garantita. Poi, se c’è bisogno di andare veloci, ci vuole una Ferrari. Ma non dobbiamo sempre stare coi piedi per terra, a volte bisogna anche volare, e volare alto! ecco allora che un elicottero Agusta A109S è quello che ci vuole: un gioiellino costoso. E poi l’internazionalizzazione, no? Che diamine. Biarritz, Miami, Mykonos e Nassau, viaggi pagati sempre sui fondi dell’università, e poco importa che in quelle destinazioni non vi siano università con le quali allacciare convenzioni o scambi.
Di che stiamo parlando? Si parla della università telematica Unicusano, e del suo amministratore Stefano Bandecchi, indagato dalla Guardia di Finanza per 80 milioni di euro di ricavi non dichiarati e destinatario per questo del sequestro di beni per 20 milioni di euro e contestazioni per spese imputate all’università, ma fatte invece per uso personale. Il peggior peculato cialtrone, si potrebbe commentare, attendendo l’esito del giudizio (per carità! siamo garantisti!). Non è solo quello.
Si tratta della infelice parabola di quel fenomeno tutto italiano, e spesso un po’ sospetto, che sono le università telematiche che svolgono attività di formazione spesso senza accreditamento formale. Quelle, per capirsi, che primeggiano nelle pubblicità per farsi largo nel “mercato della formazione”; quelle che, grazie all’ex ministra dell’Università Maria Stella Gelmini (considerata da Bonaccini, oggi, come una “interlocutrice valida”) vengono finanziate anche dai contribuenti di questa allegra nazione spendacciona.
Carta canta: nel 2022 sono stati assegnati alle università telematiche (Uni Marconi, Uninettuno, Università telematica S. Raffaele, Università telematica G. Fortunato, Unitelma Sapienza, Università Nicolò Cusano, e-Campus e IUL-Italian University Line) fondi per la bellezza di 1.742.491 euro. Fondi pubblici ad attività private; una delle quali, a quanto sembra, li usa per scopi non proprio “educativi”, come auto di lusso e spese personali del suo amministratore/proprietario. Ma non solo: secondo la Guardia di Finanza la “Niccolò Cusano” serve anche per investire in attività commerciali, coperte dall’80% del patrimonio dell’ateneo: società immobiliari, di confezionamento di generi alimentari, di trasporto aereo charter e centri benessere.
Una semplice e triste storia di furbizia e malaffare o qualcosa di più cervellotico? Purtroppo la memoria storica, roba che in questo Paese manca quasi del tutto, ci soccorre e ci ricorda da dove è venuta l’idea di finanziare con soldi pubblici queste realtà universitarie telematiche.
Era il non lontano 2009, ottobre, quando la ministra Maria Stella Gelmini esprimeva una posizione critica sulle università telematiche, previste dalla finanziaria 2003, spinte dall’allora ministra dell’Istruzione, Università e Ricerca Letizia Moratti, ma fino al momento delle dichiarazioni di Gelmini alla stampa rimaste in una sorta di limbo tra riconoscimento e diffidenza. Gelmini parlava di “criticità molto rilevanti” e si domandava se vi fossero garanzie bastanti per una formazione di qualità. La risposta deve averla trovata in maniera quasi fulminea se poco più di un anno dopo, nel novembre 2010, la riforma che porta il suo nome prevedeva chiaramente la possibilità per le telematiche di svolgere attività didattica e non solo, anche essere riconosciute come università vere e proprie, facendole per di più accedere ai finanziamenti previsti come per le università non statali riconosciute.
Forse questo cambio di opinione era dovuto al fatto che una delle università in questione, e-Campus, era stata fondata ed era gestita da Francesco Polidori, il patron del Cepu, grande amico di Silvio Berlusconi e suo socio in affari. Invece un’altra del gruppo di nuove telematiche, l’Università telematica “Niccolò Cusano”, sin dall’inizio si era distinta per il dinamismo nello stringere accordi con gli ordini professionali di tutta Italia: ben 103 accordi durante il primo anno di esistenza (del resto, non è noto che il titolo “dott.” fa lievitare la parcella?).
Tutto questo potrebbe apparire solo un triste esercizio mnemonico se non si considerasse anche il fatto che realtà come Unicusano sono tuttora finanziate con soldi pubblici; e questo è un problema di ieri, di oggi, presumibilmente anche di domani.
Siamo davvero lieti di sapere che almeno un paio di ruote delle Ferrari e delle Rolls Royce comprate da Bandecchi appartengono a noi contribuenti, e che se ci viene riconosciuta l’eccellenza chissà, un giorno potremo andare all’università in elicottero; ma nello stesso tempo siamo irritati dal fatto che personaggi spesso ambigui continuino a creare “enti economici” che si paludano del nome di università, finanziati e sostenuti non solo dalla politica ma anche dai soldi pubblici. L’elenco sarebbe lungo, e delle undici “telematiche” attive in Italia bisognerebbe sapere e indagare che tipo di formazione fanno e che tipo di gestione presentano.
Vista la questione da un’altra angolazione, questi sono i frutti malati della riforma Gelmini che continuano a far sentire il loro puzzo in maniera persistente e richiedono un intervento ben più serio di quella larvata simpatia e acquiescenza che ha accompagnato l’implementazione di quella “riforma” disgraziata. Vanno colpite storture e abusi: sia quelli più macroscopici, sui quali poi deve indagare la Guardia di Finanza, sia quelli meno visibili, che erodono comunque la credibilità dell’istituzione universitaria. È ora di mandare in pensione la “Gelmini” nei suoi aspetti più grotteschi e clientelari, ancora oggi difesi da una parte consistente del mondo politico, una parte che coincide con quella che sostiene la attuale Presidente del Consiglio.
Ancora c’è qualcuno che crede che quella sia stata una “buona riforma”, così moderna, così avanzata, così attenta a strizzare l’occhio a mercato e mondo del lavoro aziendalizzando la formazione e precarizzando il lavoro intellettuale. Lo abbiamo sempre detto, lo ripetiamo oggi: non è stata e non è una buona riforma, ed episodi come lo scandalo Unicusano sono lì a dirlo a gran voce, o meglio, a tutto gas, in Ferrari o in Rolls.