La manager di Acciaierie d'Italia, davanti alla commissione Industria, ha definito incostituzionale l'ammissione immediata dell'amministrazione straordinaria prevista dall'ultimo decreto. Per supportare la propria interpretazione, ha ripreso le parole del costituzionalista Cassese sostenendo che il nuovo decreto sia in contrasto con la Carta. E ha anche chiesto di aggiungere nuovi articoli: uno anche per neutralizzare la confisca disposta nel processo Ambiente Svenduto
Nei passaggi in cui dà forza al socio pubblico Invitalia lo definisce incostituzionale, quando invece si tratta di preservare ArcelorMittal e la produzione dell’acciaieria vuole garanzie ancora più estese. Sullo “scudo penale” che protegge sé stessa e gli altri manager, invece, nemmeno una parola. Quello deve sentirlo tagliato a pennello, Lucia Morselli, ad di Acciaierie d’Italia, società che gestisce l’ex Ilva di Taranto, che davanti alla commissione Industria del Senato ha definito incostituzionale l’ammissione immediata dell’amministrazione straordinaria prevista dall’ultimo decreto Salva-Ilva. Per supportare la propria interpretazione, l’amministratrice delegata ha ripreso le parole del costituzionalista Sabino Cassese sostenendo che il nuovo decreto sia in contrasto con la Carta, ma contestualmente ha chiesto di aggiungere nuovi articoli al decreto che anche a un profano risulterebbero da subito in conflitto con la Costituzione.
Il primo articolo dovrebbe, secondo Morselli, prevedere di spostare al tribunale di Roma non solo le questioni penali, come già prevede il decreto varato dal governo Meloni a fine dicembre, ma anche quelle amministrative. Il secondo che neutralizzi non solo i sequestri nei confronti dell’imprese di interesse strategico nazionale, ma anche le confische dando così una spallata alla Corte d’assise di Taranto che a maggio 2021 ha confiscato l’area a caldo di Taranto con la sentenza del maxi-processo Ambiente svenduto. Il terzo articolo, infine, dovrebbe imporre ai sindaci di emettere ordinanze “urgenti e contingibili” per impianti di interesse strategico nazionale solo di concerto con il ministero dell’Ambiente: un modo per evitare, insomma, che il primo cittadino di Taranto Rinaldo Melucci firmi una nuova ordinanza per lo spegnimento degli impianti più inquinanti dello stabilimento siderurgico.
Proprio rispondendo alle domande del vice presidente della commissione Giorgio Maria Borgesio, infatti, il sindaco di Taranto ha spiegato che sarebbe pronto a disporre nuovamente il fermo degli impianti se dovessero ripresentarsi le stesse condizioni di emissioni riscontrate a febbraio 2020 e senza risposte dall’azienda. Lucia Morselli, insomma, nel suo intervento ha citato il “parere” espresso da Cassese nella rivista Diritto della crisi a proposito del decreto varato dal governo sottolineando che anche il costituzionalista ritiene che l’articolo sull’immediata amministrazione straordinaria dell’impresa violi “qualche articolo della costituzione”. Come l’articolo 3 che prevede l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge: questo articolo quindi sarebbe discriminante verso alcune imprese (persone giuridiche) “visto che si applica – ha detto – ad una società che ha una partecipazione pubblica e non a tutte le società”. L’amministratrice delegata ha aggiunto che “secondo Cassese infrange anche l’articolo 41 che viola la libertà dell’iniziativa economica privata minando questa libertà di iniziativa addirittura con un esproprio privo di indennizzo rispetto ad un eventuale socio privato. Infrange per ultimo anche una norma del diritto europeo sulla protezione degli investimenti che vengono fatti da operatori europei in Europa”.
Nessun rilievo costituzionale, invece, sull’ipotesi che una parte dell’articolo 6 del nuovo decreto – che detta regole in materia di sequestri delle imprese di interesse strategico nazionale – possa risultare non in sintonia con la Carta. La norma impone ai magistrati di non sequestrare gli impianti, ma di nominare commissari o di dettare prescrizioni pur di garantire la prosecuzione dell’attività produttiva. Ma c’è di più: nel caso estremo in cui il magistrato decidesse di sequestrare, il decreto prevede che possano presentare ricorso, non solo l’azienda – nel caso di Taranto, Acciaierie d’Italia – ma anche la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il ministero dell’Ambiente o il ministero delle Imprese e del Made in Italy. E non solo. Sul loro ricorso si dovrebbe pronunciare non il tribunale del Riesame di Taranto, ma quello di Roma. Eppure l’articolo 25 della Costituzione prevede che “nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”: in parole più semplici significa che se un reato viene commesso a Taranto, come ad esempio l’emissione di sostanze nocive, il luogo “naturale” in cui valutare le eventuali responsabilità penali – o le misure da applicare – sarebbe il tribunale ionico e invece l’ultimo decreto prevede già che il giudice competente a decidere sulle questioni penali sia Roma.
Morselli ovviamente non sfiora nemmeno la questione, ma ci mette il carico: nell’audizione alla Commissione del Senato ha chiesto infatti che anche le questioni amministrative vengano trasferite nella Capitale. E quindi le eventuali ordinanze fatte da enti pubblici contro la fabbrica dovrebbero essere discusse nella capitale. Nel primo ciclo di audizioni sono state ascoltate anche le associazioni ambientaliste Legambiente, WWf e Peacelink: dura la posizione delle associazione contro il reintegro dello “scudo penale” che sembra voler garantire impunità ai vertici della società proprio nel momento in cui afferma di aver adempiuto a quasi tutte le prescrizioni previste dall’Autorizzazione integrata ambientale. Alessandro Marescotti, per Peacelink, ha poi ripercorso tutte le tappe che dal 2012 hanno caratterizzato la vicenda Ilva ricordando tutte le infrazioni e le condanne inflitte allo Stato dall’Europa, gli interventi dell’Oms e il rapporto dell’Onu che ha definito Taranto “zona di sacrificio”.
I sindacati, infine, hanno nuovamente puntato il dito contro ArcelorMittal, socio privato: “L’unica soluzione, per evitare l’ulteriore sperpero di denaro pubblico e un disastro ambientale e occupazionale ingestibile, è quella di vincolare i 750 milioni al contestuale cambio di maggioranza e quindi della governance. In alternativa, lo Stato si riappropri del bene strategico per evidenti inadempienze contrattuali e una gestione fallimentare”, è stato il duro intervento del segretario della Uilm Rocco Palombella. L’altra questione di “prioritaria importanza” per la Fiom-Cgil è “la formulazione degli articoli 5 e 7”, che secondo il responsabile siderurgia Gianni Venturi “rischia di far scomparire la responsabilità in sede penale, civile e amministrativa derivante dalla possibile violazione delle norme poste a tutela della salute e della sicurezza” dei lavoratori. Il governo “sbaglia a versare risorse lasciando l’attuale assetto societario, con ArcelorMittal come socio di maggioranza. Questo è l’unico Stato in cui vengono dati fondi pubblici senza che vi sia uno straccio di piano industriale”, ha invece sostenuto Francesco Rizzo dell’Usb. Il prossimo 30 gennaio, intanto, Acciaierie d’Italia e metalmeccanici si siederanno nuovamente al tavolo: le posizioni appaiono talmente distanti che, secondo fonti sindacali, difficilmente si arriverà a risultati concreti.