L'ultima operazione antimafia della procura di Palermo sottolinea ancora una volta l'importanza delle intercettazioni. Alcuni dei sette arrestati parlano di una sorta della carta costituente di Cosa nostra: "C’è lo statuto scritto dai padri costituenti". L'intercettazione: "Ti prometto una cosa: te lo ammazzo io l'architetto"
Esiste uno statuto di Cosa nostra. Una sorta di carta con le regole interne ai clan scritta dai padri costituenti della piovra. Non è una boutade, ma una novità investigativa contenuta nell’ultima indagine della procura di Palermo. Nonostante l’arresto di Matteo Messina Denaro, infatti, Cosa nostra continua a sopravvivere e a fare affari. Ed è solo grazie alle intercettazioni che gli inquirenti riescono ciclicamente a colpire i clan che si riorganizzano. Sono sette le persone finite agli arresti (due ai domiciliari e cinque in carcere) nell’indagine dei carabinieri del Comando provinciale di Palermo, guidati dal tenente colonnello Salvatore Di Gesare, coordinata dai pm Federica La Chioma e Dario Scaletta, che è alla sua ultima inchiesta alla Dda, visto che è stato eletto come membro togato del Csm e proprio stamattina s’insedia insieme al resto del consiglio.
Il viaggio con Provenzano a Marsiglia – L’operazione antimafia si focalizza sulla famiglia di Rocca Mezzomonreale, colpendo il mandamento di Pagliarelli, lo stesso di Giuseppe Calvaruso, il boss che stava per essere scarcerato grazie alla legge Cartabia. Gli investigatori hanno ristretto il campo sul clan dei Badagliacca, inserito da tempo nel mandamento mafioso della zona: il suo boss era uno dei fedelissimi di Bernardo Provenzano. “Era stato fra i pochissimi associati ammessi (e incaricati) di accompagnare il pericoloso boss latitante Bernando Provenzano a Marsiglia, in Francia, dove quest’ultimo sarebbe stato operato per un tumore. Del gruppo di fedelissimi ammessi al seguito del boss in occasione del suo trasferimento (fra cui gli uomini d’onore della famiglia di Villabate Troia Salvatore e Fontana Ignazio) aveva fatto parte pure l’importante uomo d’onore villabatese Mandalà Nicola, che, per come accertato nella stessa sentenza, aveva manifestato una estrema fiducia in Badagliacca Gioacchino, tanto da averlo voluto per un viaggio di affari che avrebbe dovuto portarlo sino in Venezuela, a Caracas, come emerso da alcune intercettazioni valorizzate dalla Corte d’Appello in motivazione“, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Lirio Conti.
Il boss partecipa a un concorso per autisti giudiziari – Nelle carte c’è il riferimento sullo statuto di Cosa nostra. A parlarne sono i Badagliacca, che per evitare di essere ascoltati si riuniscono in una casa di Butera, in provincia di Caltanissetta. Le cimici degli investigatori, però, riescono a registrare ogni parola di quel vertice. “Alcuni dei contenuti delle interlocuzioni captate – per la verità assolutamente sorprendenti già solo per una chiarezza delle modalità espressive che risulta di estrema rarità nell’esperienza giudiziaria- risultano assolutamente decisivi ai fini della valutazione richiesta in questa sede, nella misura in cui da essi emergono non solo la risalente affiliazione a Cosa nostra di Badagliacca Pietro e Anello Antonino, così come quella più recente di Badagliacca Gioacchino, nonché le ragioni per cui Anello non era stato invitato al consesso nonostante la detta sua qualità di appartenente, ma anche numerosi richiami alle regole basilari di funzionamento della consorteria mafiosa, contenute in un vero e proprio ‘statuto’ fondativo, che sarebbe stato redatto per iscritto dai “padri costituenti”, scrive il gip. Che poi ripercorre i motivi della riunione: bisognava allontanare Anello, perché “a dire del capofamiglia, in gioventù, quando già risultava formalmente affiliato a Cosa Nostra, aveva tenuto una condotta non consona ai dettami mafiosi, manifestando l’intenzione di partecipare ad un bando di concorso per autisti giudiziari“.
Lo Statuto della mafia – E’ durante questa discussione che Pietro Badagliacca ricorda al nipote Gioacchino “che sebbene tutti gli associati fossero la stessa cosa, esisteva comunque nell’organizzazione una struttura gerarchica che andava rispettata, in tal modo dunque platealmente rivendicando il proprio ruolo di capofamiglia”. È a quel punto che Badagliacca senior ricorda l’esistenza della carta costituente di Cosa nostra: “C’è lo statuto scritto … che hanno scritto … i padri costituenti“. Per il giudice si stratta di “una rivelazione dalla portata investigativa deflagrante: faceva, infatti, riferimento all’esistenza di un documento scritto, un vero e proprio statuto dell’organizzazione, in cui sarebbero stati annotati, dai padri costituenti di Cosa Nostra, i principi e le regole cardine dell’organizzazione, rimasti evidentemente invariati nel corso degli anni e, a tutt’oggi, ancora imprescindibili ed essenziali per la sopravvivenza stessa della struttura criminale nel suo complesso”. Di statuto di Cosa nostra si era parlato anche nel novembre del 2007, quando nel covo di Salvatore Lo Piccolo era stato trovato un foglio dattiloscritto, con appuntate le regole dell’organizzazione. “Un foglietto che ‘non è un reperto storico’, come aveva modo di chiarire il Tribunale di Palermo, ma uno statuto ancora vigente. Indica organigrammi, competenze, rituali di ingresso, diritti e doveri del socio, procedure elettive dei rappresentanti e procedure sanzionatorie per chi viola le regole. Quel foglio dattiloscritto è la carta costituzionale di Cosa nostra. Poche decine di righe bastano per sancire un progetto di continuità con l’associazione degli anni settanta e ottanta descritta a Tommaso Buscetta, e cristallizza nella sentenza che ha concluso il primo maxi processo alla mafia siciliana”, ricorda il gip Conti. “Quel foglio – si legge sempre nelle carte – è una faccia del doppio modello organizzativo di Cosa nostra nell’area nevralgica di Palermo. È solo una faccia, quella che si ripete nel tempo. L’alta cambia espressione a seconda del momento”.
Il boss intercettato si auto accusa – Ma non solo. Dall’indagine della procura di Palermo, infatti, emerge anche come alcuni degli arrestati confessino praticamente la loro appartamenza a Cosa nostra. Gioacchino Badagliacca “spontaneamente si lasciava andare a dichiarazioni autoaccusatorie non sapendo di essere oggetto di ascolto”. In pratica Badagliacca contesta allo zio Pietro di aver fatto partecipare Anello, l’uomo che aveva partecipato al concorso per autista giudiziario, alla sua cerimoonia di affiliazione: “Ninì è stato presente alla mia combinazione, questa è una cosa grave … certo perché tu non dovevi permettere è stato presente alla mia combinazione”. Subito dopo ecco che addirittura l’uomo cita la data esatta della cerimonia: “C’è stato un discorso di questo posteggio che risale a 2016, a cavallo con il 2017, prima di io essere combinato, che vengo combinato il ventidue maggio del 2017″, dice Gioacchino Badagliacca. Che in pratica rilascia dichiarazioni autoaccusatorie che “sono ampiamente suffragate dai riscontri oggettivi costituiti dal monitoraggio degli spostamenti dell’auto, dalle immagini registrate dal servizio di videosorveglianza allestito sul territorio”.
L’omicidio sventato: “Te lo ammazzo io” – Le indagini hanno sventato anche un omicidio. L’ordine di morte era stato emesso nei confronti di un architetto. Secondo i boss aveva commesso numerosi errori nella gestione della pratica amministrativa relativa alla regolarizzazione di un immobile: per l’edificio, però, era stato emesso un ordine di demolizione. “Perché io lo devo ammazzare vero non per scherzo!”, diceva Gioacchino Badagliacca. E alla fine della riunione, suo zio Pietro “con l’evidente intento di sugellare la ritrovata pace col nipote, stringeva con lui un vero e proprio patto di sangue”. Un patto esplicitato con queste parole, registrate dalle ambientali degli investigatori: “Ti prometto una cosa davanti a mio figlio, anche se c’è il pro e il contro l’ammazzo io all’architetto. Prima di morire te l’ammazzo io, prima di morire te lo ammazzo io“. I carabinieri, inoltre, hanno ricostruito diverse estorsioni a imprenditori e commercianti: gli incassi alimentavano le casse della famiglia. Per convincere la vittima a pagare, c’erano metodi molto diretti: in un caso venne fatta trovare una bambola con un proiettile conficcato nella fronte, vicino al cancello di un’abitazione.