Gli ultimi sondaggi riassumono perfettamente il problema di Giorgia Meloni. A poco meno di cento giorni dalla nascita del governo la luna di miele con gli elettori sembra finita: gli alleati di maggioranza guadagnano consensi facendole opposizione dall’interno, il partito della presidente del Consiglio inizia a perderne. La leader di Fratelli d’Italia si sta del resto scontrando con la realtà dei conti pubblici e della Realpolitik nei rapporti con Bruxelles, mentre Forza Italia e Lega continuano a fare promesse che non si possono mantenere. Dopo il clamoroso dietrofront sul pos durante il varo di una legge di Bilancio che ha ridotto il deficit per non andare allo scontro con la Ue e si è limitata per la gran parte a riproporre misure varate da esecutivi precedenti, lo sciopero dei benzinai e le proteste dei balneari contro la messa a gara delle concessioni sono la cartina di tornasole di questa “crisi di crescita” che potrebbe sfociare in crisi tout court. Di sicuro danno l’idea di una premier accerchiata.
Benzinai e balneari sono bacini elettorali di FdI. Categorie a cui in passato ha riservato molte attenzioni. È ben nota la storica posizione del partito, nei suoi anni all’opposizione, sulla necessità di abolire progressivamente tutte le accise sui carburanti., “una vergogna”. Così come Meloni si è sempre opposta all’applicazione della direttiva Bolkestein alle spiagge: solo il 26 maggio dello scorso anno ancora definiva le gare un “esproprio dei privati a vantaggio di altri privati, più grandi e più forti”. Esproprio perpetrato ovviamente dal governo Draghi, contro cui il suo partito avrebbe continuato a “battersi in ogni sede”. Con l’arrivo a Palazzo Chigi tutto è ovviamente cambiato.
Preso atto che le risorse a disposizione erano scarse, il governo ha prorogato gli sconti sulle bollette – in alcuni casi potenziandoli – ma non il taglio delle accise. Una scelta politicamente così dolorosa che Meloni l’ha fatta passare sotto silenzio e non l’ha spiegata fino a quando il caso le è esploso tra le mani dopo l’aumento dei prezzi, la caccia ai presunti “speculatori“ e l’imbarazzante smentita dell’esistenza stessa di speculazione arrivata dai dati raccolti dal ministero dell’Ambiente e dell’Energia. La corsa ai ripari ha peggiorato la situazione, visto che il decreto Trasparenza – con le multe agli impianti che non espongono il prezzo medio – ha fatto salire sulle barricate i gestori scatenando la serrata.
Ancora più contraddittorie le mosse sui balneari, una lobby di 30mila imprese che tiene in scacco la politica da decenni. L’ultima proroga delle concessioni, sonoramente bocciata dal Consiglio di Stato e dalla Commissione europea che ha aperto per questo una nuova procedura di infrazione, risale al 2018 durante il governo gialloverde (Conte 1) in cui Matteo Salvini sedeva come vicepremier accanto a Luigi Di Maio. Lo scorso anno il governo Draghi ha inserito nel ddl Concorrenza – uno degli obiettivi del Recovery plan – la messa a gara entro il 2023. Forzisti e Lega hanno votato a favore, dichiaratamente per “responsabilità”, mentre FdI restava ferma nella sua opposizione. Con tanto di promessa, da parte di Fabio Rampelli, di “far scadere la delega del decreto legislativo“. Ora le parti si sono invertite: nonostante i richiami di Bruxelles, Forza Italia e il Carroccio continuano a sostenere che le licenze si possono prorogare e hanno presentato e segnalato emendamenti ad hoc al Milleproroghe. In FdI regna il caos: un gruppo di senatori ha firmato una proposta molto simile che è stata però bloccata sul nascere. E martedì sera Palazzo Chigi, a valle di una riunione di maggioranza, ha fatto filtrare la posizione ufficiale del governo: la proroga non s’ha da fare, l’Europa non vuole.
La strada individuata per trovare una soluzione è quella di un allungamento dei tempi per esercitare la delega sulla mappatura e il riordino complessivo delle concessioni prevista dalla legge sulla Concorrenza, prendendosi tre o quattro mesi in più rispetto alla scadenza ora fissata per febbraio. Questo darebbe il tempo per convocare e ascoltare gli imprenditori del settore, che intano mettono il dito nella piaga delle incoerenze tra promesse elettorali e realtà. “Mi auguro che chi in campagna elettorale ha difeso alcuni principi si batta anche ora come un leone per difendere le nostre imprese”, avvertiva martedì il presidente di Assobalneari, Fabrizio Licordari. Ma Meloni, ora, deve fare i conti con la Commissione e con l’imminente pronuncia della Corte di giustizia europea, interpellata lo scorso maggio dal Tar di Lecce con vari quesiti sull’applicabilità della direttiva Bolkestein alla materia. Lontani i tempi in cui si sgolava contro l'”esproprio”. A godere dei benefici di consenso che derivano dalle promesse irresponsabili sono rimasti solo i suoi alleati.