Esce il 25 gennaio per Libreria Pienogiorno la versione definitiva del saggio più venduto in Italia nell’ultimo decennio. Per gentile concessione della casa editrice, ecco un brano di una delle tre parti inedite
Tre parti decisive e inedite, e molte pagine tutte nuove. Il Nuovo Terroni di Pino Aprile, che esce dal 25 gennaio per Libreria Pienogiorno, è la versione definitiva del saggio più venduto in Italia nell’ultimo decennio. Che ora si rafforza dei risultati di uno studio puntualissimo, durato appunto dieci anni, nel quale l’autore mostra storie e dati di quello che definisce un vero e proprio “genocidio dei meridionali a partire dal 1861”; un Arcipelago Gulag di cui si può ricostruire la mappa e l’organizzazione: centinaia di migliaia di persone scomparse, paesi interi rasi al suolo, deportazioni, torture, campi di concentramento. E in più una specifica analisi sulla Sardegna, dove la presenza sabauda anticipò di un secolo ciò che poi fu brutalmente attuato nel resto del Sud. Un libro spartiacque, destinato a far di nuovo discutere. “Io non sapevo che i piemontesi fecero al Sud quello che i nazisti fecero a Marzabotto. Ma tante volte, per anni”. Terroni, lo straordinario saggio di Pino Aprile che ha aperto una salutare breccia nella retorica nazionalistica, è una di quelle letture che non si dimenticano. Non solo un sensazionale bestseller, ma un longseller che è entrato di prepotenza nel dibattito storico e civile, conferendo nuova consapevolezza e restituendo orgoglio. Un libro spartiacque, se è vero, come ha scritto Giordano Bruno Guerri, che dopo la sua pubblicazione nulla sarebbe più potuto continuare allo stesso modo, e avremmo avuto un’Italia e una storia “prima” e “dopo” Terroni. Tutto questo accadeva più di un decennio fa: per questo oggi è più che mai necessario un Nuovo Terroni. Una versione definitiva che ripropone quel libro manifesto con importanti integrazioni, e soprattutto con tre nuove e decisive parti, del tutto inedite.
Ecco qui sotto, per gentile concessione della casa editrice Libreria Pienogiorno, un brano tratto da una delle tre nuove parti del libro di Pino Aprile.
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SCAPPIAMO, CHE ARRIVA LA PATRIA: I NUMERI DI UN GENOCIDIO
Fino all’arrivo dei piemontesi, la popolazione del Regno delle Due Sicilie cresceva più di quella di tutto il resto d’Italia ed era raddoppiata in un secolo. Non solo, ma quella gente nasceva e viveva nella sua terra, perché dall’approdo dell’uomo di Neanderthal a quello di Garibaldi e dei Savoia, dalle regioni del Sud non era mai emigrato nessuno; l’emigrazione, sino all’Unità d’Italia, era stato un fenomeno del Nord (la metà circa di tutti quelli costretti all’espatrio per miseria erano piemontesi o del Triveneto), il resto, del Centro, quasi niente dal Sud. […] I lombardi Cesare Correnti, poi anche ministro, e Pietro Maestri, sui risultati del primo censimento dell’Italia unita, quello del 1861, certificano dati alla mano che, da quando il Paese diventa uno, al Sud la popolazione crolla: “Dacché v’è solo per quattro provincie, Napoli, Terra d’Otranto, terra di Bari e Abruzzo Citeriore, il lieve aumento complessivo di 34.732 abitanti; e per le altre dodici un manco di centoventimila circa”. Fino all’anno prima dell’invasione sabauda, la popolazione cresceva e in pochi mesi smette di farlo e cala di centoventimila individui. Vi risulta che sia accaduto qualcosa, nel frattempo? […]
Dalle relazioni del ministro della Guerra, Manfredo Fanti, negli anni dell’invasione del Regno delle Due Sicilie e immediatamente successivi, e da analoghe fonti ufficiali scoprirò anche che almeno quindicimila soldati borbonici sono morti “per cause non dipendenti dal servizio”, una volta arruolati a forza nell’esercito dei Savoia, “ormai italiano”. E moriranno per affezioni polmonari (molti erano tenuti al freddo, con abiti inadeguati, in forti e caserme “di punizione”, esposti alle intemperie, come il lager di Fenestrelle) o deperimento organico (problema curabile mangiando). Non solo, quando entravano in agonia o era chiaro che non sarebbero sopravvissuti, quei soldati arruolati d’imperio venivano congedati, così morivano da “civili”, evitando di dar pensioni alle vedove. I dati sul calo demografico al Sud, con la calata delle truppe sabaude, non sono frutto di errori, non indicano folle di emigrati in fuga, ma “decessi anomali”, sino a circa 550mila. In un solo anno, dal 1860-61. La guerra durò almeno dieci anni. Non sembra quindi esagerato quanto al tempo scrisse la “Civiltà cattolica“, rivista dei gesuiti, che calcolava le vittime in numero superiore a quello dei voti del Plebiscito-pagliacciata o “farlocco” (Indro Montanelli) di annessione al Regno di Sardegna (votarono i forestieri, le truppe di occupazione, i legionari stranieri, si votava dinanzi a soldati armati, in modo riconoscibile, con urne diverse per il “no” e il “sì”, si votava più volte e in posti diversi, e chi votava “male” rischiava aggressioni fisiche e qualcuno ci rimise la pelle). E siccome i voti furono più di un milione… Più di mezzo milione di morti il primo anno. In dieci?
Questi dati forniscono un’idea della polemica scatenatasi con l’uscita di Terroni. Nel giro di pochi giorni, prima il popolare conduttore televisivo Corrado Augias, poi Paolo Mieli proposero di dimenticare, quale cura per il Paese. Badate, non si diceva che sarebbero state sanate le discriminazioni di centosessant’anni a danno del Mezzogiorno, in cambio dell’amnesia della vittima, ma di dimenticare e basta, perché se la memoria porta ricordi troppo dolorosi, la convivenza diviene impossibile. Questo Paese dimentica, eccome se dimentica, ma non pare che gli faccia bene. Mieli scrisse anche, qualche anno più tardi, Ferite ancora aperte, per dire che “le ferite del passato non si cicatrizzano mai”, “dovremmo considerare lo studio della storia, come il modo di tenerle sotto controllo”, perché quei “problemi non si risolvono mai, una volta per tutte. Si ripresentano, spesso in forme tali da apparire nuovi, laddove invece sono nient’altro che una riproposizione di antichi traumi. Traumi che abbiamo conosciuto, affrontato, in un certo senso risolto. Facendo, però poi l’errore di dimenticarcene”. Avessi dovuto spiegare perché ho scritto Terroni, non avrei saputo dirlo meglio.
Però, una domanda rimane senza risposta: perché Augias e Mieli chiedono di rispettare, per gli ebrei, il Giorno della Memoria; di raccontare lo sterminio degli armeni; non chiedono ai nativi americani, indios, indiani, di dimenticare il genocidio di cui furono vittime per mano europea; né si sognano di dire ai pronipoti dei neri fatti schiavi e deportati in altri continenti, di sorvolare sul perché non sono in Africa; e non suggeriscono ai Paesi e popoli già ridotti a colonia di lasciar perdere con la ricostruzione di quel che loro accadde? Perché solo agli eredi di una nazione che esisteva negli stessi confini da più di sette secoli, e di cui nemmeno il nome si può più pronunciare perché trasformato in insulto, perché solo a loro si chiede di dimenticare, non devono manco sapere come si chiamavano, ridotti a scomparire sotto un mero riferimento cardinale, “meridionali”, che li rapporta, svalutandoli, ai vincitori, del Nord? “Si può avere paura della storia?” chiedeva Gaetano Salvemini, il genio pugliese costretto a fuggire dall’Italia fascista e docente all’Università di Harvard, negli Stati Uniti. Perché c’è tanta paura della storia, da noi, da dover proporre l’amnesia di Stato, agli eredi ancor oggi discriminati delle vittime di ieri? Lo scrittore armeno William Saroyan scrisse che “il passato non muore mai”. E allora perché si chiede di non dare al genocidio dei “meridionali” (tale fu, secondo la definizione del reato, dettata dalle Nazioni Unite) il suo nome: genocidio?