L’anniversario dell’assassinio di Giangiacomo Ciaccio Montalto non aggiunga vergogna a vergogna: la politica dia un segnale dopo l’arresto di Messina Denaro. Lo scrivo nella speranza che qualcosa possa succedere per davvero.
Il 25 gennaio saranno quarant’anni dalla morte di Ciaccio Montalto, ucciso a Valderice da Cosa Nostra, mentre rincasava, nel cuore del territorio controllato dai Messina Denaro, saldamente alleati con i Corleonesi di Riina. Riscoprire oggi la storia di Ciaccio Montalto, le sue inchieste, il contesto nel quale maturò la decisione di ucciderlo sarebbe un ottimo viatico per chiarire (ancora una volta!) quanto profonde siano le radici del rapporto tra mafie e altri poteri (alias “borghesia mafiosa”, politica ed apparati istituzionali, banche e grandi aziende…), ma soprattutto quanto in realtà già si sappia di quel rapporto, che invece pare abbia fatto irruzione nel dibattito pubblico dopo l’arresto di Messina Denaro, come se fossimo all’anno zero, come ci fosse tutto da scrivere.
Far credere di essere all’anno zero su questo intreccio, mettendo in scena un mix di sorpresa ed indignazione, è un modo noto per assolvere dall’ignoranza colpevole o interessata chi dovrebbe sapere e, sapendo, intervenire. Ed è anche un modo per rinnegare l’esempio scomodo di quanti, servitori leali dello Stato, hanno ottenuto risultati importanti su questo versante, come appunto Ciaccio Montalto.
La storia di questo magistrato, che passa dallo “scandalo petroli” degli anni 70, il traffico internazionale di droga e armi (che lo porterà ad incrociare il lavoro ed il destino tragico del giudice istruttore Carlo Palermo), fino a lambire gli interessi economici di Cosa Nostra in Toscana (dove il magistrato si sarebbe trasferito di lì a poco, se non lo avessero ammazzato), ci obbliga a prendere atto che sono più di quarant’anni che investigatori e magistrati onesti scoperchiano il pentolone immondo dove si cucina l’Italia più sudicia quella che mortifica dignità, lavoro, competenze, libertà e sviluppo. L’Italia degli accordi indicibili, del clientelismo altolocato, che si serve dei “campieri” e svuota la credibilità delle Istituzioni.
La verità è che fare davvero i conti con questa realtà sarebbe destabilizzante (come ha probabilmente inteso dire Nino Di Matteo intervenendo in un dibattito televisivo qualche giorno fa), mentre è molto più comodo dimenticare i morti, emarginare i vivi e parlare d’altro. Invece bisognerebbe che lo Stato chiedesse scusa e cambiasse senso di marcia.
Per questo scrivevo “aggiungere vergogna a vergogna”, ed ora spiego in che senso.
La prima “vergogna”, che accomuna Ciaccio Montalto, Carlo Palermo ed il prefetto Fulvio Sodano (che evoco, pur non essendo stato materialmente assassinato da Cosa Nostra) è la solitudine nella quale sono stati lasciati dallo Stato nel momento in cui erano più esposti proprio sul bordo di quel “pentolone”. Nel momento in cui cioè potevano ancora essere salvati.
La seconda “vergogna” sarebbe appunto quella di non approfittare dell’arresto di Messina Denaro, per prendersi, come Stato, l’impegno solenne a ricomporre tutta questa verità. Qualche giorno fa una delle figlie di Ciaccio Montalto, Maria Irene, ha dichiarato in una intervista a Rai 3 Sicilia, che vorrebbe incontrare Messina Denaro per chiedergli come sono andate le cose in quel maledetto 25 gennaio dell’83, lo ha fatto manifestando tanta dignità quanta sofferenza.
La stessa che si può intuire dalle parole scritte da un’altra donna, un’altra Maria, la moglie del prefetto Sodano, rimosso da Trapani nei primi anni 2000, su indicazione dell’allora sottosegretario all’interno D’Alì, condannato in via definitiva per concorso esterno a sei anni di reclusione e consegnatosi al carcere di Opera nel mese di dicembre (l’uomo per la famiglia del quale i Messina Denaro facevano i campieri). Scrive la signora Sodano, mettendo in relazione l’arresto di Messina Denaro con la recente detenzione di D’Alì (la lettera è stata pubblicata da L’Espresso a cura di Enrico Bellavia): “Giustizia è stata fatta? Assolutamente no fino a quando non sarà resa dignità ai Veri Servitori dello Stato e che lo Stato continua a non riconoscere e fino a quando non avrà cacciato via la mafia all’interno dei suoi apparati, fino a quando consentirà in maniera incontrollata a certi suoi uomini di agire in assoluta libertà, consentendo loro di istituzionalizzare e legalizzare certi comportamenti distorti che hanno dimostrato favorire la criminalità organizzata”.
Ecco, bisognerebbe che la Commissione parlamentare antimafia nella sua prima seduta (quando ci sarà!), dicesse a queste donne, in nome della Repubblica italiana, che non verranno mai più lasciate sole a cercare la verità e che chiede perdono per l’isolamento nel quale sono stati lasciati i loro cari. E per dare seguito a questi impegni, bisognerebbe che la Commissione parlamentare antimafia dedicasse un suo Comitato a ricapitolare tutto quanto si sa già su Matteo Messina Denaro, sul trapanese degli ultimi 50 anni, sui trent’anni di latitanza, fino ad oggi.
Ricapitolare, ordinare, chiarire, rendere conoscibile è già un atto di giustizia. Impedire che la memoria di persone come Ciaccio Montalto, Carlo Palermo (Barbara Rizzo ed i suoi due figli Salvatore e Giuseppe Asta) e Fulvio Sodano scivoli via, è già una forma di giustizia. Impedire la rimozione delle responsabilità di una parte importante di mondo politico, a cominciare da quelle di D’Alì, è già una forma di giustizia. Impedire la normalizzazione attraverso la confusione di quello che è stato, è già una forma di giustizia. Così da capire anche, possibilmente una volta per tutte, dove le indagini su Matteo Messina Denaro si siano arenate per oggettiva difficoltà o dove si siano arenate perché bloccate intenzionalmente, con arresti o trasferimenti colpevoli di concorso esterno. “Esterno” come può esserlo il manico di quel pentolone.