Si è avvalso della facoltà di non rispondere Andrea Bonafede, il geometra di Campobello di Mazara che ha prestato l’identità al boss Matteo Messina Denaro. Bonafede dunque ha scelto di restare in silenzio durante l’interrogatorio di garanzia davanti al gip e al pm Piero Padova. Secondo i pm sarebbe un uomo d’onore riservato, un personaggio al quale il capomafia, arrestato il 16 gennaio dopo 30 anni di latitanza, si sarebbe rivolto per l’acquisito del covo in cui ha abitato e della Giulietta con cui si spostava e per avere i documenti di identità falsi. I magistrati contestano a Bonafede il reato di associazione mafiosa.
Intanto proseguono le perquisizioni dei carabinieri del Ros e del comando nucleo investigativo di Trapani nella casa del boss Matteo Messina Denaro, a Castelvetrano, prima della latitanza iniziata nel 1993. Gli uomini dell’Arma hanno trovato diversi occhiali da sole, tra cui i Ray-Ban e una bottiglia di champagne, oltre a un’immagine della mostra di Flavia Mantovan dal titolo “Facce di Mafiosi”.
In mattinata poi, il boss Matteo Messina Denaro, arrestato lunedì dai carabinieri del Ros, ha rinunciato a comparire all’udienza preliminare nel procedimento che vide coinvolti padrini, gregari della mafia agrigentina e l’avvocata Angela Porcello. La posizione del capomafia era stata stralciata perché Messina Denaro era latitante e in questi casi la legge prevede la sospensione del procedimento. All’udienza di oggi, alla quale il boss avrebbe potuto partecipare in videoconferenza dal carcere de l’Aquila, a rappresentare l’accusa c’era il pm della Dda Claudio Camilleri. Il processo nasce da una indagine della Dda coordinata da Paolo Guido che portò a decine di arresti. Una tranche si è conclusa con condanne a pene comprese tra 10 mesi e 20 anni mafiosi di boss e professionisti agrigentini accusati a vario titolo di associazione mafiosa. Condannati anche un poliziotto e un agente penitenziario che rispondevano, rispettivamente, di accesso abusivo al sistema informatico e rivelazione di segreto d’ufficio. Il processo, è stato celebrato in abbreviato. L”avvocata Angela Porcello, venne condannata a 15 anni e 4 mesi per associazione mafiosa. Secondo quanto ricostruito dai pm per due anni, nell’ufficio della penalista si sarebbero tenuti summit tra i vertici delle cosche agrigentine. Rassicurati dall’avvocato, i capi dei mandamenti di Canicattì, della famiglia di Ravanusa, Favara e Licata, Simone Castello, ex fedelissimo del boss Bernardo Provenzano e il nuovo capo della Stidda, l’ergastolano Antonio Gallea, a cui i magistrati avevano concesso la semilibertà, si ritrovavano nello studio della Porcello per discutere di affari e vicende legate a Cosa nostra. Le centinaia di ore di intercettazione disposte nello studio penale dopo che, nel corso dell’inchiesta, i carabinieri hanno compreso la vera natura degli incontri, hanno consentito agli inquirenti di far luce sugli assetti dei clan, sulle dinamiche interne, di coglierne in diretta, dalla viva voce di mafiosi di tutta la Sicilia, storie ed evoluzioni.