E’ di pochi giorni fa, la notizia del neonato morto soffocato all’Ospedale Sandro Pertini di Roma, probabilmente poiché la sua mamma si è addormentata durante l’allattamento. Una notizia agghiacciante, che ha messo in luce un aspetto del quale non si parla troppo spesso: ovvero ciò che accade immediatamente dopo il parto, in ospedale.

Intanto occorre precisare che esistono due correnti di pensiero, che ho sperimentato personalmente, sotto diversi aspetti. Ci sono infatti strutture ospedaliere nelle quali i neonati vengono affidati al nido e la madre ha la possibilità di vedere il proprio figlio solo in occasione dell’allattamento e, in qualche caso, del cambio pannolino. Per il resto, le infermiere della nursery si occupano completamente dei bambini, i quali, tra l’altro, possono essere visti dai parenti della neomamma, solo attraverso un vetro. Molto spesso, sono stata tra quei parenti che salutavano il proprio nipotino attraverso quel vetro e la cosa mi è sempre sembrata un po’ troppo asettica, devo ammetterlo.

Ci sono invece altre strutture che prediligono il cosiddetto rooming in, ovvero la possibilità di affidare immediatamente il neonato alla madre, lasciandolo in stanza con lei, in modo che possa occuparsene 24 ore su 24, salvo chiedere aiuto al nido quando si sente stanca o incontra difficoltà nell’approccio iniziale col bambino. E’ chiaro che, questa pratica, deve essere una libera scelta della neomamma e non un’imposizione della struttura. Purtroppo, non sono ancora chiare le dinamiche della tragedia accaduta a Roma, ma il padre del bimbo ha accusato la struttura ospedaliera di aver abbandonato la moglie, di non aver dato ascolto alle sue richieste di aiuto col bambino, lasciandola in balìa della stanchezza e dei sensi di colpa.

Ho letto numerosi interventi di donne che hanno vissuto delle pessime esperienze con il rooming in e che hanno posto l’accento proprio sui sensi di colpa dai quali una neomamma viene investita in queste circostanze, sentendosi schiacciata dalla responsabilità di dover per forza essere in grado di performare subito e bene, dando per scontato che aver partorito un figlio, significhi per forza essere in grado di fare la madre. La mia esperienza, tuttavia, è molto diversa.

Mia figlia è nata a Olbia, all’Ospedale Giovanni Paolo II e mi preme specificarlo, perché l’assistenza che ho ricevuto durante tutto il periodo di degenza è stata impeccabile. Ho sperimentato il rooming in e devo ammettere che all’inizio è stata dura. Ero terrorizzata all’idea di occuparmi sin da subito di un esserino grande poco più della mia mano, di sfamarla, di calmarla quando avrebbe pianto. Quello che non immaginavo è quanto avrebbe pianto! Nonostante ciò, le infermiere del nido erano sempre pronte ad aiutarmi, molto spesso persino nel cuore della notte, quando mia figlia rifiutava di attaccarsi al seno perché troppo agitata. Mi hanno assistito e sostenuto per tutto il tempo, soprattutto quando, affidando al nido la bambina per qualche ora, venivo invasa dai sensi di colpa per non essere in grado di occuparmi di lei. Mi hanno sempre tranquillizzato, spiegandomi quanto fosse normale sentirsi così e che il mio primo pensiero sarebbe dovuto essere quello di riposare, proprio per poter accudire mia figlia nel modo migliore.

Non so se la mia esperienza è un caso raro o se ci sono tante altre donne che hanno sperimentato il rooming in e ne hanno un dolce ricordo, come me. Certo è, che non si può generalizzare e demonizzare questa pratica senza entrare nel merito delle questioni. Ogni struttura è differente e soprattutto, il personale che lavora in quella struttura fa davvero la differenza. Io ho un’esperienza di parto molto bella, nonostante le mie 12 ore di travaglio. Ero circondata da un’equipe di donne: ginecologa, ostetrica, due anestesiste per l’epidurale e tante infermiere, le stesse che appena ho dato alla luce Amelie, mi hanno incoraggiato con parole di conforto, facendomi sentire una super donna, enfatizzando la mia forza e il mio coraggio, che nella realtà erano stati probabilmente sotto la media. Sembra tutto molto patinato e infiocchettato, ma questa è la realtà che ho avuto la fortuna di vivere: non mi sono sentita abbandonata, nemmeno per un minuto.

Quello che spero, è che accanto alle tante donne che hanno raccontato della loro difficile e in molti casi traumatica esperienza con il rooming in, possano esserci altrettante donne che condividono con me un ricordo positivo dei momenti post parto, accanto ai loro piccoli. Se non altro, per infondere un po’ di speranza in tutte quelle future mamme che stanno per affrontare il percorso più difficile e pieno di sorprese della loro vita. Perché una cosa è certa: partorire non significa saper fare le madri, ciò avviene piano piano, attraversando lunghi periodi di incertezze e paure, durante i quali capita di sentirsi inadeguate e di non essere in grado di affrontare una tale responsabilità.

Perciò, è fondamentale che il primo approccio a questa nuova condizione, avvenga con estrema serenità e infinita comprensione per la donna che c’è dietro quella neomamma.

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