È di almeno una decina di feriti il bilancio della repressione delle Forze di sicurezza nei confronti dei manifestanti, radunatisi stamattina di fronte al Palazzo di Giustizia a Beirut, capitale del Libano. L’assembramento era stato organizzato per protestare contro l’ordine di rilascio disposto ieri dal procuratore della Corte di Cassazione, Ghassan Oweidat, a favore delle 17 persone fermate nell’ambito delle indagini sull’esplosione al porto della capitale del 4 agosto 2020, dove erano rimaste uccise 250 persone e ferite circa 6mila.

La tensione di fronte al Palazzo di Giustizia, seppur di entità minore, ha rievocato quella esplosa in modo ancor più violento a ottobre 2021, quando sostenitori di Hezbollah e Amal – i due partiti che rappresentano la comunità sciita – si erano scontrati con sostenitori del partito delle Forze Libanesi dopo che i primi avevano inscenato una marcia per protestare contro quello che ritenevano un approccio “pregiudiziale” – cioè volto a colpire rappresentanti dei due partiti sciiti, su pressione americana – del giudice Tarek Bitar nelle indagini sull’esplosione. Il bilancio, in quelle poche ore di guerriglia a colpi di kalashnikov, era stato di 7 morti.

Quella in corso da oltre due anni è una battaglia giudiziaria, caratterizzata dal solito ingombro di ingerenze politiche, che nelle ultime 48 ore ha assunto anche i paradossali contorni di uno scontro frontale tra giudici. L’ordine di rilascio dei 17 accusati, emesso dal procuratore Oweidat – di nomina politica – è stato accompagnato anche da accuse e da una non circostanziata convocazione per “chiarimenti” dello stesso giudice Tarek Bitar (nominato quasi due anni fa dall’allora Ministro della Giustizia Marie Claude Najm e da allora sotto scorta militare permanente), che a molti – soprattutto ai familiari delle vittime, che in esso ripongono le loro speranze di veder perseguiti i responsabili dell’esplosione – è apparso come un tentativo di intimidazione di quest’ultimo e di ostruzione delle indagini che lo avevano portato un anno fa a porre in stato di fermo le 17 personalità, di cui ora Oweidat ha disposto la liberazione immediata. “È ormai chiaro che il vero problema di oggi sta nel fatto che nessuno desidera che Bitar prosegua nelle indagini”, ha dichiarato l’avvocato della ong Legal Agenda, Nizar Saghieh.

Le accuse di Oweidat a Bitar – il quale afferma di non aver ricevuto alcuna convocazione scritta ma di esserne stato informato telefonicamente, aggiungendo di non avere intenzione di presentarsi – sono arrivate dopo che lo scorso lunedì quest’ultimo ha annunciato a sorpresa la ripresa delle stesse indagini, ferme da dicembre 2021 a causa di oltre una ventina di ricorsi presentati in momenti diversi dalle forze politiche libanesi che di fatto le avevano fatte arenare nelle sabbie dei cavilli legali. Tra le persone indagate o citate da Bitar nel corso dei primi sei mesi di indagini c’era proprio Oweidat che ora sembra aver assunto una posizione in qualche modo vendicativa. “Non sarò io ad apparire al suo cospetto, ma lui al mio”, ha dichiarato alla Reuters il procuratore. “Oweidat vuole vedermi?”, ha risposto Bitar, “bene, anche io voglio vederlo”.

Secondo il procuratore, Bitar ha agito “ben oltre la sua giurisdizione, ribellandosi allo stesso potere giudiziario e abusando del suo potere”, peraltro disponendo nei suoi confronti un divieto di espatrio anche per “prevenire ulteriori disordini e violenze”. Da par suo Bitar ha ribadito l’inconsistenza delle affermazioni di Oweidat ma soprattutto la loro illegittimità, ricordando come il procuratore non possa “prendere decisioni in questo dossier, essendo stato uno degli accusati”, e che oltre un anno fa abbia volontariamente ricusato se stesso in relazione alle indagini, dopo che tra i 17 accusati era comparso anche suo cognato, cioè l’ex ministro dei Lavori Pubblici, Ghazi Zeaiter.

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