Il World Economic Forum di Davos è uno di quegli eventi, diciamo pure uno di quei “brand”, dei quali è difficile occuparsi senza rischiare accuse di complottismo. Al pari del nome di Klaus Schwab, promotore e massimo esponente della relativa fondazione e di alcune sue teorie sul futuro (confronto il cosiddetto “Grande reset” proposto dal Wef nel maggio 2020). Un po’ come il “Gruppo Bilderberg” o la “Commissione Trilaterale”. Tutti consessi effettivamente esistenti, periodicamente convocati, ma assai poco seguiti e tantomeno raccontati dai media generalisti. Al punto da esser diventati – a dispetto della loro ufficialità – nomi “sintomatici”, anzi paradigmatici addirittura, delle peggiori cose abitualmente rubricate sotto la voce “cospirazionismo”, appunto.
Con il risultato che la stampa alternativa e i media estranei al circuito mainstream, soprattutto se a quest’ultimo dichiaratamente ostili, ne traggono conferma dei propri sospetti circa le pessime intenzioni di chi partecipa ai vertici in questione. Della serie: “quelli” non ne parlano perché hanno molto da nascondere. L’informazione sedicente ufficiale e competente, dal canto suo, spesso vi si tiene alla larga per non essere neanche lontanamente accostata alla cosiddetta controinformazione. E così, per ragioni opposte ma paradossalmente convergenti, si crea un cortocircuito perverso dove la legittima curiosità degli uni alimenta la censura “giustificata” dagli altri come schermo contro la dietrologia paranoide.
Insomma, si finisce per far calare una cortina fumogena di riserbo su certi nomi, certi ritrovi, persino certi luoghi considerati solo più un’esca per gli squilibrati. Eppure, quei luoghi sono assai “ben” frequentati (da centinaia di top manager, leader politici, intellettuali eccetera), quelle organizzazioni sono assolutamente note e altrettanto ben accreditate negli ambienti delle élite. Durante quei convegni si propongono, quando non si deliberano, iniziative e agende poi sovente recepite dai governi di molti paesi del mondo. Ora, nell’edizione 2023, a conferma di quanto evidenziato, si è avuta una dichiarazione passata abbastanza in sordina e degna, invece, di ben altro risalto.
Mi riferisco alle parole di Klaus Schwab, il quale ha testualmente affermato: “Mentre l’umanità si muove ulteriormente verso un futuro post-carbonio, le persone devono accettare che mangiare carne e la proprietà privata siano semplicemente insostenibili”. Ora, l’abolizione della proprietà privata è sempre stato uno degli obbiettivi principali, se non il motto stesso, dell’antica “casa” comunista. Vale a dire di una famiglia ideologica che muoveva dal basso, si rivolgeva ai proletari di tutto il mondo, si ergeva a paladina dei lavoratori, dei poveri, dei deboli, degli ultimi e metteva nel mirino i capitalisti, gli industriali, i padroni e, per estensione, i ricchi. Oggi, quella mission, dimenticata da quasi tutti i partiti ex comunisti, vetero-comunisti o post comunisti dell’Occidente viene rispolverata e riproposta dal massimo rappresentate della crème globalista multimiliardaria.
È un interessantissimo testacoda logico e un impressionante esempio di eterogenesi dei fini. Schwab invoca, a nome dei suoi pari, la “soluzione” già fatta propria dal Manifesto di Marx ed Engels del 1848 (dove si legge: “La teoria dei comunisti può essere riassunta in una sola frase: abolizione della proprietà privata”). Quindi, non sono più i rappresentati del proletariato a voler violentemente imporre l’inaudita e radicale misura agli esponenti del grande capitale, ma sono questi ultimi a chiedere cortesemente a tutti gli altri di applicarla a se medesimi. Con un ulteriore, non trascurabile dettaglio. Nel primo caso, lo si faceva anche per un’esigenza di giustizia sociale. Nel secondo, invece, in forza di un imperativo di “sostenibilità” ambientale. Tuttavia, se ci pensiamo bene, ciò non rappresenta altro che un ritorno in grande stile al punto di partenza.
Infatti, i “proletari” si chiamavano così perché erano privi di tutto e ricchi solo di prole e Schwab sta chiedendo alle classi medio-basse (ma pur sempre proprietarie di qualcosa) di rientrare nei ranghi: di tornare cioè al livello, privo di tutto, da cui i loro nonni e avi avevano iniziato una faticosa e lenta ascesa, qualche generazione addietro. È forse il trionfo definitivo del grande capitale atteso che la proposta è stata serenamente avanzata (senza contestazioni, a quanto risulta) nel corso di un meeting organizzato dai super ricchi del pianeta e gremito di rappresentati, eletti o meno, di tutte le nazioni del globo. Dal che se ne ricava che il progetto è ritenuto non solo accettabile, ma anche praticabile. Del resto, un altro motto coniato dal Wef nel 2017 e sintonizzato sulla stessa lunghezza d’onda di cui sopra è il seguente: non possiederete nulla e sarete felici. Lorsignori, invece, possiederanno tutto e lo saranno altrettanto. Esiste favola più bella di questa in cui tutti, alla fine, vivranno felici e contenti?