Le parole del capo dell’anticrimine, Francesco Messina, danno la misura del rischio che sta correndo la repubblica: quello di disgregarsi nei fatti, senza nemmeno bisogno che Roberto Calderoli ci metta le mani con la sua autonomia “segregata”. Apprendiamo, grazie al puntuale articolo di Lucio Musolino, dell’ennesima operazione della Dda di Catanzaro, che questa volta ha come epicentro la ‘ndrangheta del vibonese e alcuni tratti ormai caratteristici, che dovrebbero aiutare a comprendere sempre meglio ampiezza e profondità del fenomeno. L’operazione, infatti, da un lato ha riguardato, in fase di esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare predisposta dal Gip Chiara Esposito, diverse città ben rappresentative del territorio nazionale (Reggio Calabria, Palermo, Avellino, Benevento, Parma, Milano, Cuneo, L’Aquila, Spoleto e Civitavecchia). Dall’altro l’operazione ha riguardato oltre ai mafiosi “patentati”, politici, funzionari pubblici e persino addetti alla Prefettura: quando si dice “le relazioni esterne”.
Ovviamente non è questa la sede per entrare nel merito di una indagine che deve ancora iniziare il suo percorso processuale, ma si possono fare un paio di considerazioni di “contesto”. La prima: la ‘ndrangheta non può più contare sull’effetto distrazione prodotto dalle vicende legate a Cosa Nostra, come era successo negli anni ’90 del secolo scorso. Insomma: questi trent’anni non sono passati invano e molto è stato metabolizzato dallo Stato, come per esempio la necessità di mantenere alta e costante l’attenzione su tutti i fenomeni mafiosi, sia quando hanno modalità più eclatanti, sia quando si inabissano per farsi dimenticare, rinunciando a bombe e a omicidi eccellenti (anche se mai e poi mai alla violenza agita, non soltanto minacciata, come ha dimostrato l’esecuzione in pieno giorno, avvenuta qualche giorno fa in un ristorante di Melito vicino a Napoli, di un presunto affiliato al cosiddetto campo degli “scissionisti”). Questa capacità di costante attenzione ad ampio raggio si deve alla specializzazione degli apparati investigativi (Dia, Ros, Gico, Nocs, Gis) e al coordinamento nazionale dell’attività giudiziaria, ovvero Distrettuali antimafia e Direzione nazionale antimafia – ed è sempre il caso di ricordarlo di questi tempi.
La seconda cosa sono, appunto, le parole del direttore centrale anticrimine della Polizia di Stato, il prefetto Francesco Messina, che dichiara: “Colpiscono, a fronte della consistente attività estorsiva consumata dalla struttura mafiosa disarticolata nei confronti di numerosissime imprese locali, sia la totale assenza di denunce all’Autorità Giudiziaria, di fatto costituente una cessione di libertà economica da parte degli estorti nei confronti degli estorsori, che l’azione facilitativa a opera di pubblici funzionari coinvolti nelle indagini in quanto prossimi all’organizzazione investigata”. La “totale assenza di denunce” e la connivenza dei “colletti bianchi” suonano come un monito pesantissimo perché evocano la presenza di un’altra Italia, che sembra vivere sotto la “pelle” dell’Italia che ci pare di conoscere. Avete presente il film Parasite? A volte indossandola, quella “pelle”, ma soltanto per servirsene e abusandone.
Un’altra Italia del tutto indifferente a quella fondata sul principio di legalità come fattore di protezione sociale e di libertà individuale, un’altra Italia piuttosto fondata sull’atavico vincolo di appartenenza tribale come fattore di protezione e di abilitazione individuale. Un’Italia che sta dalla parte di Matteo Messina Denaro, che avverte il fascino di chi riesce a ridicolizzare le Istituzioni vivendo nel lusso e nella considerazione dei suoi e che, arrivato a un passo dall’ultimo “ciak”, decide di lasciare il suo pubblico con un selfie sfrontato e irridente. E’ l’Italia che ha già apparecchiato una sua propria “autonomia differenziata” senza aspettare che la Lega segregazionista ci cali il suggello.
E’ l’Italia che anche quando fa politica e ricopre ruoli istituzionali ammicca agli amici mafiosi, come a dire: “Oh! Sto qua, ma sono sempre io”. L’Italia dei Cuffaro che, inciampando nella mafia, la informa delle indagini in corso; dei D’Alì che per decenni ha messo a disposizione dei mafiosi il proprio potere; dei Dell’Utri che la mafia la accompagnano dentro casa ad Arcore (e pensare che qualcuno la “borghesia mafiosa” la scopre ora!). La storia dirà se questa “altra” Italia che cova come Alien nel ventre di quella che ci pare di conoscere, ad un certo punto, squarciatala, ne riuscirà a fare a meno anche formalmente, inventandosi nuovi mondi che nemmeno Gianfranco Miglio avrebbe avuto il coraggio di immaginare. O se, viceversa, sarà eliminata avendo avuto l’Italia che ci pare di conoscere la forza di inverare fino in fondo la promessa costituzionale.
Certo, la direzione non pare quella buona e a segnalarlo fuori da ogni suggestione è un’Ansa che raccoglie le parole di una magistrata che, sul fronte dell’antimafia, in Calabria ha scritto pagine di storia e, cioè la dott.ssa Manzini. L’occasione è la requisitoria finale del processo Mangusta: “Una vita distrutta quella del costruttore Giuseppe Masciari, che è l’accusatore principale e si è costituito parte civile. Masciari per molti anni è stato vessato dalle continue richieste di denaro e di beni da parte degli imputati e ha trovato il coraggio di contrapporsi a quello che è lo stile di vita degli operatori economici della zona, caratterizzato dal rispetto totale e assoluto della regola dell’omertà.
Il coraggio di parlare è costato al costruttore serrese un allontanamento indispensabile per tutelare la sua persona e il suo inserimento nel ruolo dei testimoni di giustizia. Uno status che lo ha portato lontano dalla sua terra e dai suoi affetti, con cui non ha più potuto mantenere neppure i contatti”. Queste parole sono del 2004, cioè di quasi vent’anni fa. E chissà se, tra le tante cose che si sarebbe dovuto fare per scongiurare l’attuale “totale assenza di denunce”, non ci dovesse essere pure questa: evitare che la vita di chi la denuncia invece l’ha fatta venisse distrutta.