La straordinaria storia di Hedy Epstein - diventata negli anni “probabilmente la più famosa attivista al mondo per i diritti umani”, secondo Newsweek - è finalmente un libro: “La bambina nel vento”, un racconto indimenticabile e di grande valore civile
Hedy è una ragazzina come tante, che vive in una piccola cittadina tedesca, con una famiglia affettuosa, i Wachenheimer. Poi, un mattino, un professore le punta una pistola alla pancia, proprio davanti ai suoi compagni, e le intima di non tornare a scuola. Mai più. La colpa di Hedy è una sola: essere ebrea. “Una sporca ebrea”, come le dice il suo professore. È il 10 novembre 1938, la mattina dopo la Notte dei Cristalli, l’ondata di pogrom antisemiti che ha travolto la Germania nazista. Da quel momento nulla, nella sua casa e nel mondo intero, sarà come prima. Otto anni dopo, ancora giovanissima, messa in salvo dai genitori che sono riusciti a farla fuggire all’estero sul “treno dei bambini”, quella stessa ragazzina si troverà protagonista di un altro avvenimento cruciale: il Processo di Norimberga contro i medici nazisti accusati di disumani esperimenti sui prigionieri dei campi di concentramento. E a lottare affannosamente per reperire notizie sulla sorte dei suoi cari.
La straordinaria storia di Hedy Epstein – diventata negli anni “probabilmente la più famosa attivista al mondo per i diritti umani”, secondo Newsweek – è finalmente un libro: “La bambina nel vento”, un racconto indimenticabile e di grande valore civile. Il volume, che esce per Libreria Pienogiorno, è opera degli italiani Luca Crippa e Maurizio Onnis, già autori del bestseller internazionale sulla vita di Wilhelm Brasse, il fotografo sopravvissuto alla Shoah a cui si deve l’eccezionale documentazione per immagini sui prigionieri di Auschwitz, pubblicato in oltre 60 Paesi e in molte lingue. “La mattina presto” racconta Hedy, che ha contribuito personalmente alla stesura del romanzo-verità, “eravamo alla stazione di Francoforte per prendere il Kindertransport, il treno che mi doveva portare in Inghilterra. In tutto avrebbero dovuto esserci 500 bambini. I più grandi avevano già diciassette anni, i più piccoli erano due gemelli di sei mesi. Ho sempre davanti agli occhi l’immagine dei genitori di quei due gemelli, una giovane coppia, nel momento in cui li affidavano a qualcuno nello scompartimento a fianco al mio. Ripetevano continuamente: ‘Per favore, occupatevi dei nostri bambini. Per favore, i nostri bambini…’”. La maggior parte di quei piccoli avrebbe abitato con famiglie del tutto sconosciute.
“Guardavo dal finestrino il sorriso sempre più teso dei miei. Sentii il fischio del convoglio che incominciava lentamente a mettersi in movimento, e il suo ritornello: ‘Te ne vai, te ne vai, te ne vai…’. Mio padre e mia madre corsero insieme al treno fino alla fine della banchina, avevano le guance inondate di lacrime. Più il treno accelerava, più minuscoli diventavano, e alla fine non furono che due puntini in lontananza. Quando svanirono capii, forse troppo tardi, quanto dovevano amarmi per riuscire a lasciarmi andare. Mi stavano regalando una seconda vita. A causa del mio tumulto interiore e della paura dell’ignoto, alcuni giorni prima della partenza avevo fatto loro una scenata furiosa, incolpandoli apertamente di volermi mandare via perché in realtà ero una bambina adottata, così avevo detto loro nella mia folle fantasia di ragazzina. Ero una bambina adottata e adesso non mi volevano più tenere con loro. Non passò che un minuto da che li avevo persi di vista che mi pentii di quelle parole e di quei pensieri. Affogavo nelle lacrime. Presi un foglio e scrissi loro che ora capivo quanto mi amassero. Chiesi perdono per il dolore che dovevo avergli inflitto accusandoli di volersi liberare di me. Quando il treno fermò a Colonia per fare salire altri bambini, chiesi a qualcuno sulla banchina di spedire la lettera ai miei. Fino a quel momento avevo ignorato tutto quello che stava intorno. Ancora oggi non mi ricordo chi ci fosse nello scompartimento insieme a me. Quando arrivammo ad Aquisgrana, la successiva e ultima fermata in Germania, avevo già scritto un’altra lettera a mia madre e mio padre e di nuovo l’avevo consegnata a una mano ignota sulla banchina…”.
Nei giorni, mesi ed anni che seguirono, Hedy avrebbe compiuto ogni sforzo per ritrovarli. Inseguendo tracce sempre più flebili, che si perdevano di fronte ai cancelli di Auschwitz. Anche per questo aveva accettato il ruolo di interprete e archivista al processo di Norimberga: si sarebbe calata nell’orrore dei lager, tra i documenti in cui la lucida follia burocratica delle SS aveva archiviato i propri delitti – cartelle dai nomi terribili: esperimenti con cavie umane sul freddo, sul gas, sulla malaria, sulle ustioni, sui trapianti – per ricercare le prove della ferocia nazista oltre i volti imperturbabili dei ventitré accusati.
Hedy Epstein è morta a novantuno anni. Ha dedicato tutta la sua vita all’impegno per i diritti di tutti e per la pace. “Al momento della partenza sul treno mamma mi disse: ‘Hedy, cerca di essere una donna onesta, buona e coraggiosa’. Sono state le parole più importanti della mia esistenza, e tutto ciò che mi è rimasto di lei. Se ho raccontato la mia storia è per il desiderio bruciante che non debba accadere più a nessun bambino di sentirsi colpevole solo perché esiste”. Pochi mesi prima di morire, Hedy Epstein è stata arrestata per aver opposto resistenza passiva durante le manifestazioni di protesta scaturite dalla morte del giovane Michael Brown, un teenager nero disarmato ucciso dalla polizia in Missouri, negli Stati Uniti, dove Hedy ha vissuto tutta la sua età adulta. La foto del suo arresto ha fatto il giro del mondo. “Non pensavo che avrei dovuto farlo ancora a novant’anni compiuti” ha detto “ma i ghetti esistono pure oggi, ovunque le persone sono discriminate per motivi di pelle, credo, condizione economica. Esistono in tutto il mondo, forse anche in Italia. E anche oggi sono inaccettabili”. Hedy, “la bambina nel vento”, non ha mai smesso di lottare.