di Federica Pistono*

Un genere letterario particolare si è diffuso in Egitto dopo la rivoluzione del 2011: la letteratura distopica, forse un tentativo degli scrittori, dopo la delusione dovuta al fallimento della Primavera araba, di mitigare la frustrazione e lo sconforto seguiti al dissolversi del sogno di libertà e democrazia. Nello sforzo di esorcizzare la paura, il terrore di perdere il controllo del proprio destino personale e nazionale, il timore della marginalizzazione, la narrativa egiziana si è lanciata in una sorta di fuga dalla realtà, che ha coinvolto un’intera generazione di intellettuali.

La narrazione distopica, come quella fantascientifica, offre inoltre allo scrittore il pretesto di alterare la realtà, di ambientare in un altro tempo o in un altro luogo la trama di un’opera letteraria, per sfuggire così ai rigori della censura di un regime autocratico.

Il primo romanzo distopico egiziano può considerarsi Utopia, di Ahmed Khaled Tawfiq, un testo recentemente pubblicato in italiano (Atmosphere Libri, 2019), il cui successo commerciale e critico è fondato sulla combinazione di influenze occidentali, approccio narrativo postmoderno e motivi specificamente egiziani. L’opera, indicata come l’annuncio della Primavera egiziana del 2011, racconta una storia di disuguaglianza sociale, violenza e pericolo in una società consumistica del prossimo futuro.

Altro romanzo distopico tradotto in italiano è La fila di Basma Abdel Aziz, un ritratto vivido e impietoso di un Egitto dilaniato tra la disillusione e il sogno disperato di fuggire da un sistema in cui vivere è diventato impossibile.

Sempre centrato sul tramonto delle grandi speranze del 2011, appare Otared, tre stagioni all’inferno (Atmosphere Libri, 2023), di Mohammad Rabie. Si tratta forse dell’opera più violenta e disperata fra i romanzi ispirati alla Primavera araba. Con una narrazione dura e macabra, l’autore ci rivela come l’inferno sia sulla terra e non sempre la morte rappresenti l’unica certezza. Pubblicato nel 2015, il romanzo è innegabilmente un libro sulla sconfitta. Una sconfitta umana, sociale, di civiltà, quella costituita dal fallimento della rivoluzione egiziana.

Corre l’anno 2025 e i Cavalieri della Repubblica di Malta hanno invaso l’Egitto da due anni, occupando Il Cairo orientale e lasciando libera la parte occidentale della città.
La resistenza contro l’occupante è organizzata da alcuni ex ufficiali di polizia. Il colonnello Ahmed Otared, appostato come cecchino sulla Torre del Cairo, è posto a capo di un corpo speciale infiltrato nella zona occupata. Ahmed ha già assassinato il Ministro della Cultura, così come molti politici egiziani che collaborano con il nuovo regime. A volte, uccide in poche ore decine di ufficiali, soldati, collaborazionisti, passanti. Stila, cinicamente, raccapriccianti elenchi delle sue vittime, e non sente mai la necessità di riscattarsi. Nel frattempo, la società è sprofondata nel caos più totale: i cittadini rubano, violentano, si massacrano a vicenda, si drogano fino a perdere conoscenza, si suicidano in massa. Il sangue scorre per le strade, gli obitori sono stipati, i cadaveri sono ovunque. L’inferno è sulla terra. L’unica speranza di sottrarsi a quest’incubo è la morte. Invece di temerla, la maggior parte della gente la desidera.

In questo clima apocalittico, i capi della resistenza, ben lungi dall’interrogarsi sulla liceità del ricorso alla violenza indiscriminata, progettano una carneficina di cittadini egiziani, un eccidio che dovrebbe accendere nel popolo la miccia della rivolta all’occupante straniero. D’altronde, gli egiziani sono caduti così in basso da meritare una sorta di purificazione collettiva, per essere lavati dalla codardia e dalla passività. Un pugno di uomini senza scrupoli, fra i quali il colonnello Otared, è incaricato di compiere la missione.

L’arte di Rabie consiste nel mescolare intrighi, ma anche epoche diverse della storia dell’Egitto. Con un improvviso salto temporale, l’azione si sposta nel 2011, sulle orme di un uomo che vaga per la città, ispeziona obitori e ospedali per trovare il corpo del padre di un’orfana che ha raccolto. Con un nuovo salto temporale, il lettore si ritrova nell’Egitto medievale, per assistere alla “resurrezione” di un personaggio che preannuncia l’avvento dell’inferno.

L’inferno è metafora della dittatura, dell’oppressione del popolo da parte di un regime autoritario, dell’assenza di libertà, del caos che deriva da una rivoluzione fallita, della disperazione che segue la speranza. L’inferno è lo stato in cui gli uomini sottomessi rivelano il lato oscuro della natura umana, diventando ancora una volta pericolosi predatori privi della minima empatia verso i loro simili.

*Dottore di Ricerca in Letteratura araba, traduttrice, arabista, docente, si occupa di narrativa araba contemporanea e di traduzione in italiano di letteratura araba

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