Una famiglia ebrea costretta a nascondersi e convertirsi al cattolicesimo per sfuggire alle conseguenze delle leggi razziali promulgate dal governo fascista. Un figlio che, per salvarsi, decide di fingersi membro delle brigate della Repubblica Sociale Italiana. È la storia narrata da Paolo Salom – giornalista del Corriere della Sera – che, tra le pagine del suo romanzo Un ebreo in camicia nera (208 pagg., ed. Solferino) racchiude la testimonianza del padre. La storia comincia quando Galeazzo Salom (nonno di Paolo) decide di convertire la famiglia al cattolicesimo: è così che è convinto di poter mettere tutti al sicuro dopo l’emanazione delle leggi razziste volute da Benito Mussolini. Ma non basta e quindi la famiglia si nasconde con la complicità di un parroco. Inizia qui la storia di Marcello, uno dei tre figli di Galeazzo che nel pieno dell’occupazione del Paese da parte dei nazisti decide di fuggire: lascia il Veneto per Milano e poi si dirige verso la Svizzera con l’intenzione di espatriare. Ma prima del confine è fermato dai fascisti e, puntando sul solo istinto di sopravvivenza, finisce per vestire la camicia nera della Rsi, senza mai rivelare la sua identità. Con le truppe di Mussolini, ormai mal ridotte, arriva fino alla linea Gotica, quella che tagliava l’Italia all’altezza dell’Appenino tosco-emiliano. Poi la Liberazione e con questa le prime notizie sullo sterminio degli ebrei.
Paolo Salom, quando ha sentito la necessità di ripercorrere la storia della sua famiglia?
È un’esigenza antica, ho scritto questo libro in poco più di un mese, ma la preparazione è durata più di 10 anni. Da sempre incuriosito dalle vicende riguardanti il periodo della guerra vissuto dalla famiglia di mio padre, quando è venuto a mancare, ho sentito il bisogno di raccontare la sua storia per far pace con il passato che ha rappresentato una vergogna ingiustificata per l’intera famiglia.
Proprio a causa di questo senso di vergogna per aver rinnegato le sue origini per salvarsi, suo padre è stato reticente a raccontarsi. Com’è riuscito ad attingere ai dettagli del suo vissuto?
I momenti di racconto sono stati sempre brevi e frammentati finché ormai anziano, in un contesto rilassato, si è aperto totalmente. Allorché ho messo insieme i pezzi del puzzle della sua memoria, cercando conferme in mio zio ancora in vita. Quando ho terminato la stesura del libro, in cui ho inserito anche altri personaggi come il questurino che avvertì la famiglia di mio padre di scappare e il prete che li convertì al cattolicesimo, sono stato pervaso da una sensazione di leggerezza.
Una sensazione che suo padre, forse, non ha mai provato…
Già, in quelle giornate convulse che precedevano il collasso della Repubblica Sociale, il confine tra fedeltà e tradimento era sottile. Mio padre aveva soltanto 15 anni e, senza avere contezza degli eventi molto più grandi di lui né tantomeno il tempo per riflettere, ha agito mosso da un’esigenza primaria: salvarsi la vita. Per tale motivo, trovandosi da solo e senza soldi dinanzi a una pattuglia armata che lo accusava di essere un disertore o un ebreo in fuga – ciò che realmente era – dichiarò di volersi arruolare e indossò la divisa dei nemici.
L’epilogo fu positivo. Dunque al destino si può sfuggire?
Talvolta è difficile comprendere se è una questione di fortuna o abilità. Certamente, mio padre, a modo suo, è stato fortunato: è riuscito a camuffarsi tra i fascisti perché, a seguito della conversione al cattolicesimo fortemente voluta da mio nonno, conosceva la dottrina, le preghiere, dunque aveva gli strumenti per mostrarsi non ebreo.
Quando ha preso consapevolezza del dramma vissuto e in parte scampato?
Mio padre, per lungo tempo, non ha elaborato quanto vissuto, anzi ha rimosso. Terminata la guerra, ha avuto un momento di riflessione a posteriori. Man mano che arrivavano notizie dettagliate sull’Olocausto, prendendo consapevolezza della macchina concentrazionaria tedesca, è sopraggiunto lo shock, la vergogna. Così si è portato nell’animo, fino al suo ultimo giorno, le cicatrici di eventi devastanti, di decisioni prese con l’immaturità dei suoi 15 anni.
Il racconto di questa storia personale, oltre ad assolvere a un’intima esigenza, spera sia utile in un periodo storico in cui si sente il fiato sul collo di un nuovo antisemitismo?
Ho trasferito su carta la storia della mia famiglia affinché ognuno possa trarne un motivo di immedesimazione o traslazione su questioni che, tutt’oggi, affliggono il mondo. C’è, però, una differenza sostanziale: a quei tempi esisteva soltanto la verità del regime, non c’era opinione pubblica né libertà di stampa. Oggi, invece, abbiamo gli strumenti per comprendere gli eventi, discernere il bene dal male. Dunque tutti dovremmo riconoscere che l’antisemitismo non ha ragione di esistere, è assurdo come la discriminazione per chi ha la pelle più scura. Ma, purtroppo, sono consapevole che il pregiudizio è difficile da abbattere.
Condivide il timore della senatrice a vita Liliana Segre, secondo la quale “tra qualche anno sulla Shoah ci sarà una riga sui libri di storia e poi nemmeno più quella”?
Purtroppo sì, il suo timore è assolutamente fondato. I sopravvissuti sono sempre di meno, pertanto, per arginare questa deriva, è importante tramandare le nostre testimonianze anche ai più giovani. Io rappresento la seconda generazione, i miei figli avranno questo testimone da portare avanti. Dobbiamo tenere alta la memoria, anche se è altrettanto necessaria la disponibilità all’ascolto, non sempre presente nel prossimo.
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Foto: Bundesarchiv, Bild 101I-316-1196-05 / Demmer / CC-BY-SA 3.0, CC BY-SA 3.0 de