di Leonardo Botta

L’immarcescibile ministro leghista Roberto Calderoli si è messo al lavoro e in un batter d’occhio ha presentato la sua bozza di disegno di legge sull’autonomia differenziata: materia tosta e complessa. E io, senza pregiudizi, mi sono accostato a una prima lettura. Ripeto, senza pregiudizi, dal momento che chi come me ha votato sì al referendum confermativo sulla riforma del titolo V della Costituzione varata dal centro-sinistra nel 2001 (che pure qualche stortura, col senno del poi, ha comportato) deve confrontarsi con l’esigenza che quel percorso si compia interamente con una legge che disciplini alcune competenze delle regioni a statuto ordinario (non più solo di quelle a statuto speciale e delle province autonome di Trento e Bolzano), ai sensi degli articoli 116 e 117. Perciò, sgomberando il campo da posizioni faziose e preconcette, è ora che si dia attuazione, dopo 21 anni da quella riforma, al comma 3 dell’articolo 116 della nostra Carta.

Il problema ovviamente è “come”. E qui, consentitemi, qualche valutazione preconcetta sul fautore di questa riforma io me lo riserverei. Insomma, non che io mi fidi ciecamente di Calderoli, quello che esibiva in pubblico magliette contro l’Islam scatenando quasi una guerra di religione e dava dell’orango all’ex ministra Cécile Kyenge; bruciava col lanciafiamme cataste di leggi dello Stato in pubblica piazza spacciando quel gesto come atto di rivoluzionaria semplificazione legislativa. Varava una riforma elettorale da lui stesso definita una “porcata”.

Ho dato perciò una rapida lettura a quei nove articoli e relativo allegato che indica le 23 materie concorrenti tra Stato e regioni interessate dal disegno di legge e ho individuato, anche grazie alla lettura di articoli specialistici sull’argomento, quelle che a mio parere sono alcune criticità (volendo usare un eufemismo). Innanzitutto, pare che il processo di attivazione dell’autonomia differenziata da parte delle regioni sia particolarmente facile, non prevedendo alcun check sui criteri necessari per avanzare l’istanza (conti in ordine, eventuali commissariamenti sulle materie per cui si richiede l’autonomia).

Sembrano poi abbastanza deboli i poteri di interlocuzione e interdizione che la bozza di norma assegna al Parlamento (in particolare alla Commissione sugli affari regionali) e alla Conferenza Stato-Regioni sui processi di attribuzione dell’autonomia. Insomma, dalla bozza sembra che, alla fine, governo e regione interessata se la possano cantare e suonare come vogliono. Uno degli elementi cardini di questa riforma deve essere la definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (Lep), che dovrebbe precedere l’approvazione della legge. Invece ciò può avvenire anche successivamente utilizzando, nel transitorio, la cosiddetta “spesa storica”; dalla spesa storica si dovrebbe poi passare al “fabbisogno standard”, ma non si capisce come e quando. Ancora: le intese sull’autonomia tra le regioni e lo Stato sono singole (si può andare in ordine sparso), senza alcuna norma di salvaguardia per lo Stato di rivedere gli accordi in caso lo ritenga necessario.

Infine, ultima ma non ultima, ci sarebbe la questione relativa alla tutela delle regioni più in difficoltà, prevalentemente quelle del sud, magari mediante lo stanziamento di un fondo di perequazione (di cui la bozza di legge non parla). Ricordo a tal proposito che, per ciò che mi risulta, la spesa storica qualche centinaio di miliardi al meridione li ha sottratti. In tutto questo, la notizia forse buona è che la riforma parte in un momento storico in cui la Lega non è particolarmente forte (sono lontani i fasti del partito di Matteo Salvini al 35% dei consensi): non credo che Fratelli d’Italia (e la sua leader Giorgia Meloni) e Forza Italia abbiano particolari interessi a vedere “scamazzato” il sud, come qualche esponente leghista gradirebbe forse fare.

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