Società

La povertà come colpa muove il welfare del dolore: una condotta ipocrita e irragionevole

di Emiliano Mandrone (fonte: lavoce.info)

Ormai si è fatta strada un’idea della povertà come demerito, che non contempla attenuanti. Si spendono così risorse pubbliche per curare e non per prevenire, per reprimere e non per integrare. È un welfare del dolore lontano dalla nostra Costituzione.

Perché abbiamo sistemi di protezione sociale?

Tutti vogliono aiutare le persone in difficoltà, ma le risorse sono scarse e quindi si vuole evitare di darle a chi non ne ha davvero bisogno. È l’atavico problema delle politiche pubbliche e dei servizi sociali: dalla pensione di invalidità al bonus edilizio, dalla indennità di disoccupazione alle borse di studio, dalla casa popolare al reddito di cittadinanza. Contrastare l’azzardo morale che pervade questi dispositivi sociali è come “separare il grano dal loglio” (la gramigna infestante o zizzania, Matteo 13, 24:30), un impegno gravoso che spesso vanifica l’intento della legge e aumenta l’onere gestionale per lo stato che deve predisporre complessi sistemi di condizionalità che scoraggiano chi ne avrebbe più bisogno.

I sistemi di protezione sociale nascono dall’esigenza di stemperare le durezze del mercato dovute al ciclo economico. L’intento era che la discontinuità occupazionale involontaria non si traducesse in povertà. È stato un processo lento, tuttora in corso, contrassegnato da lotte durissime, nulla è stato regalato. Le istituzioni sociali sono un costrutto dell’uomo e, come tali, possono venir meno. Infatti, se in alcuni paesi del Nord Europa c’è un ampio dibattito sull’estensione delle coperture legate ai nuovi rischi del mondo digitale, in molte parti del mondo si verifica una regressione dei diritti.

La cassa integrazione è stato uno strumento, tipicamente italiano, di composizione delle istanze del mondo del lavoro industriale. Oggi il mondo è cambiato e servono nuove logiche, più d’appartenenza che economiche, perché i rischi non sono solo occupazionali e i costi non sono solo industriali.

La storia recente ha ribadito come alcuni eventi catastrofici, crisi sistemiche e transizioni tecnologiche abbiano prodotto serie ripercussioni sui cittadini che involontariamente hanno perso il lavoro e sulle imprese che sono entrate in crisi senza colpe. Tutto questo come si fronteggia? Mario Draghi, nel 2009, scriveva come i motivi dell’assicurazione sociale risiedano nella migliore capacità di fronteggiare collettivamente i crescenti rischi idiosincratici ma servono adeguate risorse (tecniche, umane e finanziarie) per affermare l’azione dello stato. Ma chi va aiutato?

La fenomenologia del povero

I poveri hanno un abito ben riconoscibile, un odore forte, un colore tipico. È l’idea di povero che ci viene dalla letteratura alla Oliver Twist o dal neorealismo degli anni Cinquanta o dai reportage da zone di guerra e carestie. Vediamo una persona con le spalle al muro, senza alternative, che chiede aiuto, che è nelle mani degli altri. Abbiamo aderito a costumi sociali a noi alieni, tipici di una visione calvinista e neoliberista, che abbiamo assimilato per induzione, quasi inconsapevolmente. Il pisolino della ragione ci ha fatto dimenticare il nostro diffuso sentimento solidaristico di matrice catto-comunista. Pertanto, non deve stupire una certa idea di povertà (Chiara Saraceno, 2021) che vede il fenomeno come una colpa. Così non si considerano più le cause sociali, il combinarsi di più svantaggi, il vivere in ambienti tossici da cui è difficile emanciparsi. L’idea prevalente del povero è quella di colui che ha scelto di non lavorare e non contempla attenuanti legate al contesto cui appartiene o alla propria condizione, così si riafferma, ennesima regressione culturale, l’idea della povertà e della disoccupazione come demerito.

Ciò alimenta un furore che ha radici profonde, primordiali. La massa vuole il dolore, vuol assistere allo spettacolo della sofferenza, commuoversi e sentirsi protagonista della salvezza di chi la patisce: vuol vedere il bambino con le mosche sugli occhi, la famiglia al freddo accanto alla casa crollata, il barbone vestito di stracci. Per loro non si lesina la solidarietà: si è pronti a donare il maglione infeltrito o a regalare il cappotto dismesso, insomma, a tirar fuori gli spicci dalle tasche.

Le dimensioni della povertà

Per fortuna si sono elaborate dimensioni della povertà più articolate, frutto di sensibilità più ampie. Ma, termini come povertà relativa, lavoro povero, disoccupazione tecnologica, individui occupabili, fragilità educativa, offerta congrua, periferie esistenziali rimangono concetti metafisici, speculazioni intellettuali che la gente non comprende. Così si continuano a spendere risorse pubbliche per curare e non per prevenire, per reprimere invece che per integrare, per aiutare chi è finito nel disagio piuttosto che scivoli nel disagio, per togliere il fango dalle case piuttosto che pulire i fiumi. La storia ci dice che prediligiamo la soluzione emergenziale, spettacolare, inefficiente. È il welfare del dolore.

Strabismo, furbizia, sdoppiamento della personalità: sono tante le ragioni di questa condotta irragionevole, doppia, ipocrita, tipicamente italiana. Ci piace lo slancio a reti unificate nel tirar fuori la gente dalle alluvioni o dalle macerie di un terremoto, ma poi si vincono le elezioni (soprattutto locali) con le sanatorie e i piani regolatori scriteriati. Si rinuncia a intervenire sulle cause e si fa largo una subcultura dei fenomeni, per cui si predilige l’assistenza alla emancipazione e si alimenta un mercato del disagio, una mercificazione della povertà, una industria del disastro.

In questo modo si attribuiscono colpe e meriti solo all’individuo: faber est suae quisque fortunae (ciascuno è artefice della propria sorte). Ignorando che l’esito della nostra esistenza ha una componente individuale, che qualcuno chiama merito, e una casuale, la sorte. Infatti, nel 1948, si era deciso che il merito si può usare come criterio premiale solo se eguali sono i punti di partenza, le risorse disponibili, l’educazione ricevuta. Altrimenti è una mera giustificazione alle disuguaglianze. Luigi Einaudi – liberale vero – lo volle scritto nella Costituzione. E lì è rimasto.