Il bambino in stanza con la mamma, 24 ore su 24, subito dopo il parto. Quella del rooming-in è un’esperienza che può essere straordinaria, ma anche rivelarsi un “incubo”, come descritto da molte mamme che, dopo la vicenda del neonato deceduto al Pertini di Roma, hanno deciso di condividere le loro esperienze. Ilfattoquotidiano.it ha chiesto a Silvia Vaccari, presidente della Federazione nazionale degli Ordini della professione di Ostetrica spiega come funziona la gestione di una pratica a cui è la scienza, in primis, ad attribuire valore. “Organizzazione mondiale della sanità e Unicef supportano il rooming-in – spiega – perché diversi studi dimostrano che tenere il bambino vicino e allattarlo al seno tutte le volte che lo richiede porta dei vantaggi in termini di benessere post-partum e nella crescita futura. La mamma produce più latte che, per il bambino, significa assumere più nutrienti e un antibiotico naturale. Ma non è una pratica adottabile per tutte le donne e in ogni circostanza. Una struttura non può decidere, in assoluto, di ospitare tutti i bambini al nido o, al contrario, lasciarli tutti 24 ore su 24 in stanza con le mamme”.
Chi decide se si può fare il rooming-in e con quali criteri?
Dipende da modelli organizzativi e capienza degli ospedali. Sono i professionisti sanitari a valutare le condizioni fisiche e psicologiche delle pazienti. Ci sono mille variabili: una gravidanza particolare, un travaglio lungo, un parto doloroso e difficile. Tutto questo viene fuori dopo il momento iniziale di euforia, cala l’adrenalina e subentra la stanchezza. Noi dobbiamo cercare di cogliere i sintomi. A me piace chiedere ‘come stai?’, perché credo che in realtà la valutazione vada fatta insieme alla donna, anche se le mamme tendono a nascondere problemi e fragilità.
In che senso?
Secondo una cultura molto radicata, la donna nasce per prendersi cura dei propri figli. Una donna, dunque, fa molta fatica a chiedere aiuto e, se lo fa, si sente svalorizzata rispetto al suo ruolo materno. Subito dopo il parto, però, si prova una stanchezza dovuta anche a una battaglia ormonale, che può portare ai sintomi della depressione post-partum. È essenziale cogliere le piccole sfumature. E c’è anche un’altra ragione per cui il rooming-in non può essere adottato sempre: assistiamo donne con esigenze e aspettative diverse. L’età del parto è cambiata, in media siamo sui 33-35 anni: sono persone mature, con un proprio background e aspettative diverse, in confronto al passato, anche rispetto al proprio bambino. Bisognerebbe tenerne conto.
Sono tantissime le mamme che raccontano di non essere state ascoltate, di essere state spinte a prendersi cura dei loro bambini, dal cambio del pannolino all’allattamento, senza essere nelle condizioni di poterlo fare, a causa di dolori, stanchezza dovuta a travagli molto lunghi, mancanza di sonno.
È una realtà molto distante dalla mia, quella dell’Emilia-Romagna. Ho letto molti commenti in questi giorni, accuse e denunce e credo che in alcuni casi ci sia stato proprio un ‘massacro’ nei confronti delle professioniste ostetriche. Non vuol dire che le persone non possano raccontare le proprie esperienze e, in caso, segnalare delle mancanze, ma sono convinta che in Italia ci siano tanti professionisti sanitari che svolgono la loro attività bene e con empatia. Devo dire che, lavorando anche a Roma, temo che alcune delle situazioni segnalate vengano a crearsi con più facilità in grandi ospedali e in realtà dove non ci sono risorse e manca il personale. Se un professionista si trova a gestire venti mamme e venti bambini, avrà maggiori difficoltà ad ascoltare e cogliere, ad esempio, tutti i segnali di un malessere. Di post-partum si occupano ostetriche, infermiere e puericoltrici per i bambini che fanno più fatica ad adattarsi e infermieri pediatrici neonatali nelle Terapie intensive neonatali. Certo, di fronte a quello che alcune donne percepiscono o, magari, subiscono perché in quel momento non trovano il coraggio di dire ‘no, questa cosa con me non va bene’, dobbiamo pensare a cosa fare per migliorare.
Per esempio?
Ho fatto l’ostetrica per quarant’anni e sono stata anche coordinatore, da caposala. Ci sono state mamme che mi hanno chiesto di parlare di qualche problema che si era verificato. Le ho ascoltate in privato e ho fatto da mediatrice tra la donna e la professionista che aveva utilizzato un certo tono o comportamento, turbando la paziente in un momento di particolare vulnerabilità. L’obiettivo non è solo la serenità della mamma, ma anche che la professionista corregga quel comportamento. In questi casi è importante sapere anche chiedere scusa e può avvenire in modo reciproco. Noi abbiamo un codice deontologico, che è anche uno strumento legale, molto rigido su comportamenti, assistenza, relazione con i pazienti e comunicazione. Anche il questionario di gradimento serve per apportare dei correttivi.
Molte donne raccontano che, già ai corsi pre-parto, si caldeggia la pratica del rooming-in “anche perché è di notte che si risveglia l’ossitocina e c’è più latte” e che questa pressione si avverte anche dopo il parto con una mancanza di empatia verso chi non riesce ad allattare. Stanchezza, ragadi e seno sanguinante, dolori vari, nulla deve impedire alle mamme di allattare, ma non sempre viene fornita la giusta assistenza.
Informare le mamme sui vantaggi dell’allattamento al seno è un atto doveroso ed etico, ma va valutata ogni persona, ogni esigenza e ogni stato di salute. L’obiettivo è che la neo mamma vada a casa serena, o con il latte artificiale o con il latte del seno, ma serena. L’allattamento è un lavoro, che prevede anche dei momenti più complicati. Innanzitutto occorre valutare la crescita del bambino e il suo stato di benessere, anche in relazione a quello della madre. Se una donna non si alimenta correttamente, se è molto stanca e non riesce a riposare perché non ha nessuno che l’aiuta, produrrà meno latte. Si valuta come procedere, anche cercando di capire se la mamma è ancora motivata e il suo stato emozionale. Ci sono donne che hanno tanto latte, ma vivono un momento di fragilità.
In queste ore, la Società Italiana di Neonatologia, la Società Italiana di Pediatria, la Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia e l’Associazione Ostetrici e Ginecologi Ospedalieri Italiani, pur ribadendo il valore del rooming-in, raccomandano che l’assistenza “preveda che le famiglie siano adeguatamente informate, coinvolte e supportate” e che “gli operatori sanitari offrano un’assistenza per quanto possibile individualizzata ed empatica”.
Un progetto di miglioramento assistenziale non può prescindere dal discorso delle risorse umane, che devono essere adeguate ai bisogni di salute delle donne. Non è una giustificazione, ma è un fatto che la mancanza di personale può portare a queste situazioni di disagio e di percezione negativa da parte della donna dell’assistenza che le viene fornita. Se ci fosse più personale, certamente anche il rooming-in non verrebbe percepito come qualcosa di subìto, ma di vissuto da madre e bambini. Oggi, inoltre, non abbiamo più una rete familiare, con tutte queste mamme e nonne che ci aiutano. Una donna che ha appena partorito prova un senso di solitudine e di inadeguatezza al ruolo più spiccate rispetto al passato. In questo contesto, credo che le ostriche debbano stringere alleanza con le donne, contribuendo a creare consapevolezza rispetto alle loro capacità. È importante il coinvolgimento del compagno o della compagna. Quanto accaduto negli ultimi anni non ha aiutato.
Quanto hanno influito le restrizioni dovute al Covid?
È aumentato di molto il senso di solitudine e di percezione della paura delle donne e, in genere, dei pazienti. Perché sono rimaste effettivamente sole. In alcune realtà non hanno fatto entrare i papà neppure al momento del parto e, in altre, tuttora possono fare visita alle compagne per un’ora al giorno. Soprattutto nel percorso nascita, secondo me alle donne occorreva garantire la presenza di una figura di riferimento, il marito, il compagno o la compagna, un’amica. C’è chi l’ha fatto o ha cercato di farlo. Altrove non è andata così. Anche in questo caso, dipende dai modelli organizzativi delle singole strutture per i quali, su tutto il territorio nazionale, c’è un grande lavoro da fare per renderli più vicini ai bisogni di salute delle donne. E c’è bisogno di risorse.