Il cappotto del re d’Inghilterra fa notizia: è lo stesso da 40 anni. Carlo III potrebbe metterlo in vendita e farci qualche soldo, come suggerisce una martellante pubblicità, ma preferisce tenerlo e metterselo. Ovviamente il suo cappotto (ma forse ne ha più di uno) non è all’ultima moda: taglio e tessuto sono classici. E chi potrebbe avere più classe di un re inglese? Gli inglesi sono “strani” perché da una parte hanno i comportamenti più stravaganti e, dall’altra, sono detentori di stili intramontabili. Le mode più estreme nascono lì, come la minigonna di Mary Quant, o le mode dei vari movimenti rocker, mod, punk, e molti altri che si distinsero anche per il modo di vestire.

A fianco a queste mode, però, rimane salda la sartoria di tradizione: ottimi tagli e ottimi tessuti. Genova, la mia città, è la più inglese d’Italia. Dall’Inghilterra abbiamo preso la passione per il pallone e la prima squadra italiana di calcio porta il nome della città, ma in inglese: Genoa. Da sempre, a Genova, ci sono negozi che vendono abbigliamento inglese.

Negli anni Settanta un paio di scarpe, in media, costava tra le sette e le diecimila lire. Io vedevo le scarpe inglesi in questi negozi, quelle traforate. Costavano dieci volte il prezzo delle scarpe “normali”. Investii il mio primo stipendio da borsista Cnr in un paio di scarpe marrone chiaro: centoventimila lire. Un’enormità per il 1978. Le ho ancora dopo 45 anni. Le ho fatte risuolare una volta. Il tacco due volte. Tutte le scarpe che ho comprato ai prezzi correnti sono andate. Quelle scarpe inglesi mi piacciono come il primo giorno. Ne ho comprate altre di quel tipo (un paio marrone scuro, un paio nero e un paio scamosciate, che ho appena fatto risuolare) e le ho tutte, dopo decenni. Se faccio la somma di quel che ho speso in scarpe a buon prezzo in tutti questi anni mi rendo conto di aver speso molto di più.

I pantaloni non mi durano altrettanto: si consumano nel punto di attrito tra le cosce. Li porto a rattoppare, ma alla fine mi arrendo e li butto. Le giacche no e anche l’unico cappotto che ho. È di Armani. Lo comprai vent’anni fa, quando si passò dalla lira all’euro. Il negozio che lo vendeva, in saldo, aveva lasciato il cartellino col prezzo in lire: un milione. Andai alla cassa e dissi: a metà prezzo fa mezzo milione cambiando a duemila lire per euro (mi voglio rovinare) fa 250 euro. Un milione per un cappotto era un’enormità e la commerciante si sentì defraudata a darlo via per 250 euro. Anche quello è come nuovo e “fa la sua figura”, tanto per lodare anche la sartoria italica.

Capisco che il mio comportamento regale non favorisca l’economia che, infatti, spinge l’industria dell’abbigliamento a “creare” capi stravaganti e che, nella stagione successiva, sono ridicoli. Creando la necessità di cambiarli il capo più duraturo, in termini di stile, sono i blue jeans, ma ce ne sono di tanti tipi. Negli anni 70 c’erano quelli a zampa d’elefante, poi quelli strettissimi, poi a vita alta, poi a vita bassa. Quando impera una moda, però, si trovano solo jeans di un certo tipo. C’è stato un periodo in cui andavano di moda i pantaloni a vita bassa, anzi: bassissima. Se ti piegavi mettevi in mostra il di dietro. I pantaloni si usurano rapidamente e, in quel periodo, trovarne di mio gusto era un’impresa. Ma non li avete con la vita più alta? Chiedevo. Eh no, ora la moda vuole questo. La moda? Ma io non voglio questo. Poi qualcuno ha schiacciato un bottone e ora c’è di nuovo la vita alta. La vita bassa fa ridere. Come si fa a vestirsi così?

L’obsolescenza programmata domina anche altri settori, dagli elettrodomestici alle auto. Le cose devono esaurire rapidamente il loro ciclo di vita, in modo da poterne vendere altre. Il che ha un senso. Se nessuno ha la lavatrice e all’improvviso tutti la comprano, il mercato delle lavatrici ha uno sviluppo prorompente, ma quando tutti hanno la lavatrice che fa l’industria? I grandissimi numeri di vendita dell’inizio non ci sono più e la produzione dovrebbe soddisfare solo le nuove famiglie. Se si ripara la lavatrice quando si rompe l’industria degli elettrodomestici si ridimensiona, si perdono posti di lavoro e l’economia non “gira”. Costa più ripararla che comprarne una nuova, ti dicono. Buttala via e comprala nuova, ti conviene.

L’economia dell’obsolescenza programmata produce quantità immani di rifiuti e ha costi ambientali spaventosi. Dovremmo smetterla, ma come impiegare le masse di operatori che lavorano nelle industrie che producono beni a rapida obsolescenza? L’Italia produceva mine antiuomo. Aver smesso di produrle ha tolto il lavoro a chi le produceva. Ma non possiamo continuare con un’economia folle con la giustificazione del ricatto occupazionale: o continuiamo così o ci saranno sempre più disoccupati.

La transizione ecologica richiede che si passi ad altri modi di produrre e consumare. Situazioni paradossali. Le macchine ci libereranno dal lavoro, si diceva. Ma se ci liberiamo dal lavoro restiamo senza lavoro! I sistemi economici e l’organizzazione sociale vanno ripensati e non starò certo a farlo io, in un post. Il messaggio di re Carlo III, però, è chiaro: il consumismo è insostenibile. Anche lui, come Francesco, chiede la conversione ecologica. Estremisti gretini, ovviamente.

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