Il 31 gennaio del 1865 il congresso americano approvò il 13esimo emendamento che dichiarava: “Né la schiavitù né la servitù involontaria, se non come una punizione per un crimine per il quale il soggetto deve essere stato debitamente condannato, devono esistere all’interno degli Stati Uniti, o in qualsiasi luogo soggetto alla loro giurisdizione”. Formalmente, dunque, schiavitù e servitù involontaria furono da allora superate. È noto, tuttavia, come altre tipologie di discriminazioni abbiano gradualmente connotato la società americana e le relazioni di potere all’interno di essa e nelle dinamiche lavorative. In particolare, la “razza” ha marcato delle gerarchizzazioni che in forma storicamente mutevole hanno attraversato e tutt’oggi attraversano società statunitense e più in generale occidentale – intersecando classe sociale e genere.
Anche sotto il punto di vista giuridico, in realtà, il processo è stato più lungo e complicato di quanto si pensi. Lo stesso tredicesimo emendamento fu ratificato nei mesi seguenti da 27 stati su 36, rendendo effettivo il provvedimento nella seconda metà di dicembre dello stesso anno. Tuttavia, per alcuni stati i tempi di ratifica furono più lunghi e, in particolare, il Mississippi ratificò solo nel 1995, a 130 anni dalla sua adozione. Per di più, nel 2013, si è scoperto che, a causa di una mancata comunicazione, la decisione non era mai stata ufficializzata alla National Archives and Records Administration, l’agenzia indipendente che si occupa di registrare e rendere consultabili i documenti governativi e amministrativi negli Stati Uniti.
È interessante, sempre in prospettiva giuridica, spostare l’attenzione anche su altri attori e momenti storici. Si pensi al diritto penale internazionale e alla Convenzione di Ginevra concernente la schiavitù del 1926, e alla Convenzione supplementare sull’abolizione della schiavitù, del commercio di schiavi, e sulle istituzioni e pratiche assimilabili alla schiavitù del 1956 – ratificata dall’Italia con legge 20 dicembre 1957, n. 1304. In queste sedi la schiavitù è stata definita come “lo stato o la condizione di un individuo sul quale si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o taluni di essi” e lo schiavo alla stregua di un “individuo che ha tale stato o condizione”. Inoltre, a questa definizione di schiavitù si sono aggiunte le indicazioni offerte nell’ambito del diritto internazionale dei diritti umani: pur non presentando una definizione onnicomprensiva delle “pratiche di schiavitù”, queste sono oggetto di espresso divieto sia nell’ambito della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (articolo 4), sia nel Patto Internazionale sui diritti civili e politici (articolo 8), che sancisce che “nessuno può esser tenuto in stato di schiavitù” e che “la schiavitù e la tratta degli schiavi sono proibite sotto qualsiasi forma”. Anche il diritto internazionale dei diritti umani continentale si muove analogamente: la Convenzione europea dei diritti dell’uomo segnala che “nessuno può essere tenuto in condizioni di schiavitù o di servitù” e che “nessuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato od obbligatorio”.
I passaggi giuridici indicati, per quanto molto differenti, ci parlano di una lunga durata del ragionamento giuridico sulla schiavitù. Ciò è rilevante non tanto rispetto alla specificità delle definizioni ma, piuttosto, perché ci parla di una urgenza sociale di continuare a parlare di questo tipo di rapporti di potere che, magari in modo più sfumato e meno chiaro, ancora esistono.
Di fatto, da diverso tempo a questa parte, si parla di forme di schiavitù contemporanea. I concetti di forme contemporanee di schiavitù, schiavitù contemporanea, schiavitù sono oggi spesso utilizzati da molti attori di governance globale, tra cui organizzazioni internazionali, Stati, entità sui generis, come la Santa Sede, organizzazioni non governative, gruppi e reti informali, nonché da network di ricerca e mediatici.
I vari modelli di schiavitù si sono sempre basati, nella storia, sulla dipendenza e sulla vulnerabilità del soggetto dominato o che si intende dominare. Quantificare con precisione il fenomeno è assai difficile perché, di fatto, può tradursi in modo socialmente quasi invisibile: non serve incatenare le vittime per metterle in trappola, basta confiscare le carte d’identità, i passaporti, perché cessino di esistere sul piano giuridico. Le forme contemporanee di schiavitù restano quindi ancora molto indefinite a livello di chiarezza sul contenuto e sui limiti del concetto, spesso influendo negativamente su molte attività, compresa l’azione coordinata che coinvolge gli attori della governance globale nella lotta contro le forme di sfruttamento che costituiscono le forme contemporanee di schiavitù, la raccolta di dati pertinenti e il calcolo di stime significative e la definizione di priorità per le azioni future. Un approccio inclusivo è stato adottato dal Relatore speciale delle Nazioni Unite per cui la schiavitù contemporanea “include schiavitù tradizionale, lavoro forzato, servitù per debiti, servi della gleba, bambini che lavorano in schiavitù o condizioni simili alla schiavitù, alla servitù domestica, alla schiavitù sessuale e alle forme servili del matrimonio”. Nel 2017, la Relatrice Speciale ha concentrato la sua attenzione su quelle che ha etichettato come “forme più sottili di schiavitù”, tra cui, in particolare, “lavoro forzato, servitù domestica, matrimonio precoce e forzato, lavoro minorile in schiavitù, matrimoni servili e casta forme basate sulla schiavitù”.
Nella foto in alto – Il National Monument Slavery Past di Amsterdam