Andare controcorrente è sempre un piacere. Che Anton Cechov di René Féret, uscito nelle sale italiane il 26 gennaio per Wanted, abbia ricevuto recensioni totalmente negative è un vero mistero della critica contemporanea. Si tratta, invece, di un esempio di cinema libero da mode e convenzioni, hollywoodiane in primis, ma soprattutto di una certa cinefilia d’essai che eleva venerabili statue, spesso a sproposito. Intanto parliamo di un film del 2015, l’ultimo di Féret, morto proprio in quell’anno a 69 anni dopo una corposa carriera di cineasta pressoché inedita in Italia. Anton Cechov è un apparentemente normale biopic sul celebre scrittore e drammaturgo russo – stigmatizzata geopolitica del resto oggi mica da ridere – dove si affronta con ampie e sospese pennellate grossomodo una ventina d’anni di vita e carriera, tra il 1880 e il 1900 dell’autore de Il Gabbiano.
Al centro di una drammaturgia che evita l’impatto frontale del meccanismo di causa-effetto (una spettacolarizzazione suprema, ad esempio, di apici del successo e della disgrazia), e che fa invece sfumare e slittare di continuo gli elementi narrativi in quadri consequenziali temporalmente successivi potenti ma mai deflagranti, c’è la freddezza programmatica del personaggio di Cechov (Nicholas Giraud), giovane medico incline alla missione dall’etica professionale adamantina ed incapace di forti slanci sentimentali e passionali con le donne, tante, che lo amano e gli sbavano dietro. Un vortice creativo inesauribile di racconti, romanzi e testi teatrali, quello di Cechov che, peraltro, ha fatto storia e scuola indiscutibilmente. E proprio nell’assenza di una vera e propria centralità di un protagonista rispetto al resto dei personaggi, che Anton Cechov di Féret diventa cinema cecoviano in potenza, scansando ulteriormente la dimensione scontata dell’agiografia. In pratica lo scrittore è sì protagonista, ma il brulicare significante di presenze in campo (familiari, amici, editori, attori), di riempitura accesa del quadro, spesso proprio nel modo in cui protagonisti in scena stanno stretti dentro una stanzetta, una cameretta, un cucinotto, un sottoscala, sgonfia l’elogio solenne del mito del singolo.
Ogni sequenza sembra come vivere di per sé, senza mai una chiusura vera e propria (le numerose attenzioni femminili) o con ipotetiche e possibili vie di fuga (la veglia al fratello morto che si chiude in mezzo a tantissimi familiari con Cechov a fondo quadro che scrive). Cechov appare così emotivamente trattenuto – si guardi per contrasto come si rimpicciolisce di fronte alla follia campagnola di Tolstoj (Frederic Pierrot) – con una maturità umana, sociale, affettiva frammentata dalle traiettorie continuamente rilanciate dallo script di Féret in almeno una abbondante mezza dozzina di personaggi (la sorella Masa, il fratello pittore, l’editore Suvorin, su tutti) che appaiono anch’essi tormentati e indefiniti, chiusi e antispettacolari. Poi certo la narrazione ha le sembianze del racconto di formazione in senso ampio, con una sorta di consapevolezza politica che Cechov introietta solo nel momento in cui visita l’isola di Sachalin, nella Siberia orientale, a 11mila chilometri da Mosca dove venivano deportati criminali e per molti anche le loro famiglie. “Una vita senza principio e senza finale”, insomma, nella migliore tradizione cecoviana. Féret lavora infine sulla condensazione dello sguardo spettatoriale, senza dover incorrere in significativi fondali, spazi aperti, campi lunghi, che pur ci sono. L’immagine è una palette di colore ocra, marrone, verde, che pulsa di dettagli dei costumi e del mobilio, di cravattini e colletti, con riverente rispetto per un cinema a cui servono pochi tratti esteriori, visibili, materici, per entrare all’interno della materia invisibile di angosce e sentimenti. Marie Feret nei panni della compunta ma viva istitutrice Anna è la figlia ventisettenne del regista. Mentre Alexandre, fratello di Anton, è Brontis Jodorowsky, figlio del celebre regista cileno Alejandro.