Oggi è facile salire sul carro della squadra dominatrice del campionato italiano di calcio, ma quando, ad agosto scorso, su queste pagine, scrissi che il Napoli era più forte dell’anno scorso, non fui risparmiato da qualche commento di disaccordo (eufemismo).

Eppure la mia analisi, non una profezia, non si basava solo sugli aspetti tecnici, tralaltro influenzata da quella speranza agostana tipica del tifoso che, lo dicono gli psicologi, rappresenta uno straordinario strumento per arginare le psicosi nelle sue declinazioni peggiori (tra cui il tifo): se cade la speranza, qualsiasi progetto di vita rischia il fallimento.

Il mio ragionamento, anche questa una deviazione mentale che deriva dalla mia professione, considerava un valore aggiunto la liberazione dalla leadership tossica dei vari Insigne, Mertens e Koulibaly ceduti al termine della passata stagione.

Indubbiamente dei professionisti legati ai colori azzurri (lo stanno dimostrando anche in questi mesi attraverso i loro post sui social) cui non voglio, da tifoso, mostrare ingratitudine ma che avevano manifestato negli anni i lineamenti dei leader tossici, così come percepiti, spesso inconsapevolmente, dai compagni di squadra.

Una toxic leadership caratterizzata da alcuni elementi significativi.

Tra questi si notava che, nonostante il comportamento di attaccamento alla maglia del leader tossico, tralaltro avallato da una narrazione popolare basata su elementi che non hanno nulla a che vedere con la leadership efficace (un giornalista locale affermò che la leadership di Insigne si evinceva da come “batteva il cinque con i compagni”), il resto della squadra tendeva a sopportare e ad abbandonare il percorso di crescita e maturazione, mantenendo il rispetto non per la persona ma per la seniority che è cosa ben diversa dalla capacità di comando.

Significativo, al riguardo, è, anche, il risultato di una ricerca che indica che più passa il tempo di permanenza nel gruppo dei leader tossici, meno si ha la percezione degli effetti negativi della Bad Leadership sui risultati di squadra.

L’osservazione mainstream dei fenomeni socio-economici porta in molti casi ad affermare che le performance di leadership migliorino con la “seniority”, quando quest’ultima è, invece, spesso solo sinonimo di fedeltà e di senso di gratitudine nonché portatrice di valori attribuiti al lavoro come esperienza individuale. Mertens o Insigne o Koulibaly, oltre ad essere fedeli alla maglia, hanno migliorato sicuramente il loro “saper fare” in campo.

Mancava, però, un passaggio: i “fantastici perdenti”, come li avevo denominati, avevano ormai metabolizzato mentalmente il falso adagio del “chi si accontenta (anche di una qualificazione Champions), gode”, una dinamica molto frequente nelle organizzazioni che affiancano ai senior molti collaboratori giovani ed affamati la cui leadership, quella poi emersa questo anno, viene soffocata.

Ma sappiamo bene che chi si accontenta non vince mai.

Siamo convinti, invece, che un leader si riconosca per il suo percorso di crescita personale e professionale, per la fiducia nelle sue competenze, per l’esperienza nel saper gestire criticità e situazioni impreviste, per l’abilità a supportare e motivare colleghi e collaboratori, per la capacità di far rete (anche con gli stakeholder esterni) e per la sua autorevolezza e credibilità.

Il grande merito della società e di Spalletti è stato quello di “liberarsi” senza traumi di quella zavorra e liberare le energie vincenti di un gruppo in cui sussiste ora una leadership diffusa e democratica.

Forza Napoli!

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