Il desiderio di insegnare a scuola lo coltivavo fin dagli anni dell’università e quando lo confessavo i futuri colleghi musicologi non esitavano a prendermi quasi in giro: “E che fai con 1.400 euro al mese?”. Questa la prima, non proprio irragionevole, obiezione. Come dargli torto, ma come darlo al tempo stesso a una vocazione quasi genetica? Professori scolastici, prima di me, i genitori, il nonno e i bisnonni: praticamente un predestinato che della scuola aveva avuto però una narrazione ben più rosea e felice dell’ambiente che in prima persona avrebbe sperimentato. Un’idea di scuola mutuata soprattutto dal rispetto che l’ambiente cittadino aveva sempre avuto per il professore Nicola Cerminara, il nonno docente di italiano, latino e greco che, pluripremiato poeta, lungo una vita di onorata carriera scolastica aveva tenuto privatamente a docenza un indescrivibile numero di studenti, talmente tanti da dedicarvi le intere stagioni estive raggiungendo la famiglia, in villeggiatura al mare, i soli fine settimana.
L’idea, dunque, di una scuola nella quale il docente era una figura quasi mitologica, un essere superiore al quale portare un rispetto incondizionato; una scuola nella quale le famiglie, mettendovi raramente piede nei soli giorni comandati, temevano e al contempo rispettavano il giudizio del professore; una scuola in cui era normale e automatico alzarsi in piedi all’ingresso del docente. Andare alla cattedra quando interrogati e temere la reazione dei genitori se rimproverati, impreparati o addirittura rimandati: esercizio inutile immaginarsela nel malaugurato caso in cui si fosse stati bocciati. Nel frattempo, però, oltre la scuola stessa, martoriata da venti e più anni di scellerate schiforme, è radicalmente cambiata la società tutta.
Un cambiamento, quello a cui l’Italia è andata incontro negli ultimi decenni, che porta la firma del galoppante consumismo, di leggi di mercato e di un intero mondo nel quale, impietosamente, è il valore economico a indicare quello umano: vali quanto guadagni, ne più ne meno. E in una società in cui l’inflazione galoppa e gli stipendi dei docenti restano per interi decenni al palo, gli stessi, con un potere d’acquisto ridotto all’osso, diventano di colpo i proletari dell’intelletto. I poveri cristi su cui scaricare le frustrazioni e i fallimenti di ogni sogno infranto, di ogni sfumata illusione, di una società malata e moralmente compromessa. Pian pianino, senza quasi rendercene conto, i giornali hanno iniziato a riempirsi di titoli e titoloni su vessazioni, abusi e maltrattamenti che docenti di ogni ordine, grado e latitudine subiscono oramai quotidianamente da alunni e genitori.
Clienti, esattamente clienti e nulla più, di quelli che la scuola dell’autonomia, quella voluta da ogni sorta di governo succedutosi negli ultimi 25 anni nutre l’inconfessato terrore di perdere: badare alle iscrizioni, sanno bene i dirigenti, che solo quelle garantiscono la tenuta economica dell’istituto. Ed è così che l’insegnamento da valore si è ridotto a servizio, di quelli che devono innanzitutto rispettare il gradimento dell’utenza. Un’utenza non adeguatamente informata sul fatto che i livelli di apprendimento dei più diretti fruitori, gli alunni, dalle eccellenze di una scuola un tempo invidiabile, modello di caratura internazionale sono drasticamente crollati ai numeri degli annuali rapporti Invalsi: giovani diplomandi troppo spesso incapaci a comprendere un testo, a far di conto, ad affrontare un’interrogazione comodamente seduti al proprio banco, senza un libro o un quaderno spalancato sotto gli occhi.
Intere generazioni a cui lo Stato, le dirigenze e l’intero sistema dell’istruzione ha gradualmente sottratto il diritto all’apprendimento, alla crescita e alla formazione, migliaia e migliaia di giovani riempiti come scatole vuote di progetti, progettini ed educazioni civiche che di civico hanno il solo numero della scuola presso cui vengono erogate, come anche mille altre attività dal solo effetto, o più cinicamente scopo, di impedire una sana azione didattica, di portare a termine il programma annuale, di fornire loro gli adeguati strumenti per non soccombere in una società sempre più complessa, articolata, veloce e spietata.
Una scuola troppo spesso ridotta a parcheggio dell’infanzia, in ambienti e strutture troppo eufemisticamente inadeguate; una scuola in cui c’è una chat per ogni cosa, di classe, di dipartimento, di plesso, d’istituto, di educazione civica, di sostegno, d’esame, chat di ogni tipo per messaggi che, in barba a qualsiasi diritto alla disconnessione, giungono a ogni ora di ogni giorno: inutile opporsi, anche le circolari ormai si veicolano via chat; una scuola che si dimentica di premiare i docenti più culturalmente meritevoli e che baratta il principio meritocratico con logiche d’ordine aziendale, dove il docente meritevole è quello non culturalmente aggiornato, avanzato, progredito, ma quello che prende parte a tutti i corsi di formazione possibili, di quelli che con le materie di studio, con la didattica non c’entrano nulla, ma vanno altresì ad alimentare giri economici e potentati di non poco conto; una scuola che andrebbe rinnovata dalle fondamenta, ma i cui fondi per farlo vengono dirottati verso gli istituti privati; una scuola che invoglia solo a fuggire e che personalmente, trasferendomi a tempo pieno in conservatorio, con sollievo ho salutato a partire dal primo gennaio del 2023. Una sconfitta collettiva di cui prendere sempre più diffusamente atto, senza che venga a ricordarcelo una mamma finlandese o l’ennesimo docente maltrattato.