I quotidiani commemorano la storia politica dell'ex portavoce della Dc ed ex parlamentare del centrosinistra. Ma riscrivono la sua storia giudiziaria che, partita dalla foto simbolo con gli schiavettoni in tribunale, si concluse con una pena di un anno e 4 mesi per false e reticenti informazioni rese al pubblico ministero nelle indagini per una tangente da 5 miliardi alla Democrazia Cristiana
Enzo Carra, scomparso ieri a 79 anni, si è meritato tutti gli articoli di commiato, giustamente commossi, che gli hanno riservato i giornali. “Garbo, intelligenza, ironia” riassume Mario Ajello sul Messaggero. “Portavoce e consigliere gentile, sottile, colto e scettico quanto bastava per influenzare i giornali” lo definisce Filippo Ceccarelli su Repubblica. “Grande era anche lui – è il ricordo di l’ex leader dell’Udc Marco Follini sulla Stampa – nascosto dietro il suo garbo, la sua ironia, il suo gusto del sottinteso”. “Noi vecchi giornalisti politici – racconta Paolo Franchi sul Corriere della Sera – avevamo coniato un verbo, «accarrarsi», cioè parlare con Enzo con la speranza, sempre delusa, di carpirgli qualche notizia succosa, ma con la certezza che qualcosa di intelligente ce lo avrebbe detto. Credo che qualcosa di simile sia capitato a molti colleghi più giovani”. Ma – fatti salvi il dolore, il ricordo e il giusto tributo al personaggio politico che ha attraversato due Repubbliche – i lettori di alcuni di quei giornali che lo hanno commemorato si meriterebbero anche qualche pezzo di verità in più. O meglio: non si meriterebbero le bugie che – amalgamate con i ricordi degli autori degli articoli – sono state loro rifilate.
Tutti gli articoli, inevitabilmente, ricordano che il nome di Carra – ex portavoce della Dc di Arnaldo Forlani – si è legato a doppio filo a Tangentopoli e la sua foto del 4 marzo 1993, con gli schiavettoni ai polsi in un corridoio del tribunale di Milano, è diventata un simbolo di quella stagione, brandita soprattutto da chi ne ha criticato i presunti eccessi. Ma quello che è sorprendente è che nella ricostruzione del caso giudiziario i giornali sono arrivati a ribaltare l’esito di quel processo. Scrive Ajello sul Messaggero: “Ovviamente sarebbe risultato estraneo a ogni accusa ma la drammatica immagine fece il giro del mondo e suscitò i primi dubbi sui metodi dei presunti eroi di Mani Pulite”. Ovviamente, invece, Carra fu condannato a un anno e 4 mesi per “false o reticenti informazioni rese al pubblico ministero“, un’informazione facilmente reperibile nell’archivio dell’agenzia Ansa. Eppure quello del Messaggero non è un lapsus perché nel catenaccio Carra viene mandato “assolto“. Marco Follini invece scrive nelle prime righe del suo ricordo sulla Stampa che Carra fu “arrestato per un delitto mai commesso“, forse una sicurezza intima dell’ex collega prima nella Dc e poi nell’Udc (in cui Carra ha finito la sua carriera politica) ma non ciò che dissero le sentenze di primo, secondo e terzo grado.
In altri articoli la riscrittura del processo a Carra è più en passant. Ceccarelli su Repubblica per esempio mette in un inciso che “fu condannato non per corruzione ma per falsa testimonianza” ma non dice sull’argomento su cui era chiamato a parlare l’allora esponente della Dc, mentre in un altro passaggio dell’articolo sintetizza la vicenda giudiziaria con questa formula: “Grosso modo si ritrovò esposto alla gogna mediatica perché ‘non poteva non sapere‘”. Di spalla Stefano Folli, editorialista del giornale, integra il concetto sostenendo che Carra fu arrestato “in base al teorema che l’uomo accanto a Forlani doveva essere depositario di segreti inconfessabili e che la cura delle manette, anzi del carcere, sarebbe stata in grado di farlo parlare. Ma Carra non aveva granché da dire“. Nessuna delle due firme di Repubblica – nel significativo spazio messo a disposizione – riesce a fare un solo accenno al centro dell’inchiesta in cui finì Carra, cioè quello su una tangente di 5 miliardi di lire ricevuta dalla Democrazia Cristiana nell’ambito dell’operazione Enimont, ossia una parte dell’epicentro del terremoto politico-giudiziario che sconvolse il quadro politico agli inizi degli anni Novanta. E quindi proprio la motivazione con cui fu condannato Carra – la sua reticenza – viene ribaltata in “non aveva granché da dire”: proprio quello per cui i giudici hanno deciso che Carra aveva commesso il reato a lui contestato.
A coinvolgere nelle indagini Enzo Carra era stato Graziano Moro, collaboratore stretto del vicesegretario della Dc Silvio Lega, membro del dipartimento Economia del partito e manager pubblico con incarichi all’Iri e all’Eni. Moro racconta all’allora pm Antonio Di Pietro che era stato Carra a dirgli dei 5 miliardi ricevuti dalla Democrazia Cristiana. Carra nega, la Procura lo mette a confronto con Moro, quest’ultimo non solo conferma ma aggiunge dettagli, Carra continua a negare, con variazioni sul tema. Nella sentenza di primo grado, con la quale Carra viene temporaneamente condannato a due anni (la pena sarà poi ridotta a 16 mesi per la scelta del rito abbreviato), i giudici scrivono che il portavoce di Forlani “da un lato ha voluto salvaguardare l’immagine del suo partito e impedire che, attraverso la sua collaborazione venissero coinvolti nell’ inchiesta gli esponenti della Dc implicati nella vicenda. Dall’altro lato ha preferito salvaguardare la sua immagine, negando di aver indicato a Moro opportunità di una linea di condotta all’interno dell’ Eni, in funzione del finanziamento ricevuto dal partito”. In appello altri giudici saranno ancora più severi arrivando a parlare di un “poco apprezzabile sentimento di omertà“.
Poi c’è la vicenda degli “schiavettoni”, cioè le manette con le catene, con i quali Carra fu trasferito dal carcere al tribunale il giorno dell’udienza del processo per direttissima. Alla fine del percorso viene chiuso nella gabbia che ancora in quel periodo è presente in quasi tutte le aule di giustizia (in alcuni casi esiste ancora oggi). E’ una scena che si ripete spesso nei tribunali di tutta Italia per imputati processati per diversi reati. Qui la procedura non cambia. Anzi, sono Di Pietro e Piercamillo Davigo a ordinare di tirare fuori Carra. Ed è sempre Di Pietro che grida che “la traduzione in manette è vietata”. In realtà c’è una legge di qualche mese prima con primo firmatario un deputato socialista (Raffaele Mastrantuono) e ispiratore l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli che prevede la possibilità di ammanettare l’arrestato durante le cosiddette “traduzioni individuali” a discrezione di Procure, tribunali o penitenziari. In questo caso la dirigenza del carcere di Milano hanno ritenuto Carra un “soggetto a grande sorveglianza” perché preoccupata dallo stato psicologico del detenuto e questo è stato sufficiente per i carabinieri per lasciarlo in manette. Ad ogni modo tutto l’arco politico-istituzionale esprime indignazione, Forlani paragona la cosa alla Gestapo, Achille Occhetto si dice turbato, l’Osservatore Romano dice che in tribunale di recente è stato trattato meglio perfino Totò Riina, il nuovo ministro guardasigilli Giovanni Conso dice che “è stata tradita la giustizia” e che “l’episodio disonora il Paese”. Nel caos generale un gruppo di detenuti del carcere di Quarto, in provincia di Asti, decide così di scrivere alla Stampa, un po’ sbalordito per le polemiche. “Siamo tutti ladri di galline – si legge nella loro lettera – Eppure in tutti i trasferimenti veniamo incatenati ben stretti, per farci male, e e restiamo incatenati in treno, in ospedale, al gabinetto, sempre. Anche noi appariamo in catene sui giornali prima di essere processati, ma nessuno ha mai aperto un dibattito su di noi. Oggi ci siamo domandati quali differenze esistano fra noi e il signor Carra. Al quale, in ogni caso, esprimiamo solidarietà“.