Succede quando leggi grandi autori. Che ti fermi per un momento che non è mai un attimo perché un attimo lo quantifichi: un battito di ciglia, l’unione di due mani in un applauso, il dito che riposiziona sul naso gli occhiali scivolati giù. Il grande autore ti blocca per un tempo indefinito, ma sufficiente a farti riavvolgere il nastro e dire: questa verità ce l’avevo e non lo sapevo, tu me l’hai tirata fuori. L’hai detta a voce alta come io non avrei saputo dirla.
Sto leggendo Michael Chabon, un titolo che mi ha attratto per mille motivi: Imprevedibili sprazzi di paternità. E’ un periodo di rallentamento, in cui mi sono imposta il freno a mano e quindi tutto deve essere tirato, anche la lettura. Non voglio fagocitare e ingurgitare pagine su pagine, mi sono imposta un ritmo da tempi meridiani tanto raccontati da Cassano. Piuttosto, due racconti al giorno, non di più, in modo da assaporarli e gustarli al meglio. Intanto da un’altra parte della mia quotidianità di giornalista imperversa un’interessante polemica destinata a trasformarsi rapidamente in un bubbone che esploderà lasciando macerie (e forse anche caos): quella sugli algoritmi nell’informazione: sì, no, e se sì fino a che punto; e se no perché no.
E’ mattina presto quando scocca l’ora dell‘egoismo, quel tempo cioè in cui, prima che tutto cominci, mi concedo un’inscalfibile spazio di lettura. Nella testa ho ancora l’eco dei possibili vantaggi e svantaggi nell’affidare l’informazione a ologrammi abbelliti da voci meccaniche, la stesura di servizi che un software sfornerebbe in tempi record sotto dettatura, esiti di rischi di deresponsabilizzazione della professione, un coacervo di ipotesi e teorie, etc. etc., ma io decido di passare la mano e di dirigere la mia verso un concetto indifferibile: la lettura del mattino è sacra. Quindi con indefettibile fede apro il volume di Chabon.
Avventure tra gli eufemismi. Un titolo che qualsiasi altro era meglio. Sono sincera. Ma decido di non applicare uno dei diritti del lettore promossi da Pennac, ovvero il mio diritto anche a saltarlo, questo racconto, perché si tratterebbe di un atteggiamento dettato dal pregiudizio. E io il pregiudizio no, figuriamoci. Anche perché parliamo solo del titolo.
Quando finisco il racconto ringrazio l’etica masochista del dovere sotto la quale sono cresciuta, perché se solo avessi adottato un atteggiamento poco più edonistico probabilmente non avrei letto questo racconto e mi sarei preclusa un indispensabile viaggio dentro di me alla ricerca del significato della parola. Del suo peso e della sua importanza, del suo poter indicare la via o farla smarrire completamente. Chabon parla ai figli ed educa loro, ma insegna anche a noi. Il dilemma che si scioglie tra le sue righe alla fine dell’opera è quello che lui stesso non si era posto all’inizio: se fosse giusto o no leggere ai suoi due figli piccoli Le Avventure di Huckleberry Finn non pronunciando mai la parola “negro”. E se con Tom Sawyer questo gli era riuscito, anche perché essendo il romanzo scritto in terza persona non aveva in sé l’incarnazione del narratore, quindi del pensiero di Huck, adesso il dilemma si faceva per lui stringente.
La soluzione, da grande maestro che è, Chabon la farà trovare proprio ai suoi due piccoli figli, avocando a sé la responsabilità dell’atto gravissimo che si stava consumando ai loro danni: quello del modificare arbitrariamente una parola (e quindi un messaggio) in nome della presunta supremazia di un politicamente corretto ottuso tanto da non tenere conto della storia, della cultura e soprattutto del fatto che Mark Twain non era uno che passava lì per caso. Ma che, come Dickens prima di lui, è stato un traduttore della realtà che annusava attorno a sé, un fotografo del suo tempo, un poeta della cronaca, ma soprattutto dell’attualità.
Bellissimo e altamente umile il momento in cui Chabon si autogiudica in modo impietoso dopo aver ascoltato la domanda del figlio piccolo: “Come mai, se non puoi dire quella parola lì, quando leggevi Tom Sawyer continuavi a dire Joe l’indiano? Perché anche quello è offensivo”. Resto ferma per il tempo necessario a capire che la lettura, così come la scrittura, sono tempo e gestazione. Chi le pratica deve essere un ruminante, un digiunatore, uno che può introdurre pochi bocconcini alla volta. L’occhio mi scivola sul cellulare nel quale, ne sono certa, un altro messaggio ancora sull’imminente pericolo degli algoritmi sostitutivi si sarà palesato sotto forma di notifica non letta.
Non ne nomino neanche uno, di questi algoritmi, per non fare torto a nessuno di loro. Ma una parte di me è carica di pregiudizio e quindi temo che a priori si rivolgerebbe a lui come al sempiterno australopiteco di guzzantiano successo. Capisco però che nessuna novità si possa liquidare come peggiore solo perché ancora è da capire – il che non vuol dire adottare, perché nuovo non è sempre bello – e mi fermo su quanto di buono ho ricevuto oggi da un maestro della letteratura.
E mi convinco che, sebbene a vari livelli, la distorsione di un’idea – sia essa la contraffazione di una fotografia o l’alterazione di un risultato matematico – è sempre una forma subdola di reato. Il torto lo facciamo a chi viene dopo, che potrebbe capire meno, poco o niente, se non addirittura arrivare a sapere altro rispetto alle intenzioni originarie solo perché noi dovevamo andare veloci e risparmiare (algoritmo) o restare sulle nostre (pregiudizio).
Umano e robot qui non fa differenza. Ma poi la differenza viene, eccome. Le parole sono magiche e sacre. E saperle usare, non abusandone, è una responsabilità alla quale non si può derogare. Per cui onore al merito di Chabon, che da par suo si è autoinflitto un giudizio poco lusinghiero (non era dovuto, potevamo anche non saperlo) ma ha restituito, attraverso la parola giusta, un pensiero che è fotografia di una temperie storica. L’alternativa sarebbe stata deformare un pensiero e manipolarlo per renderlo oggettivato e quindi più distribuibile.
A proposito, mi chiedo mentre scorro con gli occhi i dorsi di alcuni romanzi che hanno contribuito alla mia formazione e che spero presto passeranno nelle mani dei miei figli: come tradurrebbe un algoritmo quel capolavoro immenso che è Ragazzo negro, di Richard Wright?