Quando la pandemia da Covid-19 ha iniziato in ogni angolo del Pianeta a dilatare il tempo e a rinviare i concerti, abbiamo tutti (o quasi) ripescato le foto e i video dei live a cui avevamo partecipato in passato. Le immagini hanno avuto il potere terapeutico di farci riavvolgere il nastro, e quel salto all’indietro ci ha permesso di rivivere momenti magici. Un’operazione un po’ folle, un forma di micro-mania, un modo per blindarsi un attimo in un barlume di normalità, un placebo alla confusione che sostava vorticosa nella testa. In quel surreale momento storico, le pagine dei giornali venivano quotidianamente infarcite da notizie su come i personaggi noti al grande pubblico impiegavano il tempo del lockdown. Abbiamo così appreso che Bob Dylan aveva nuovamente preso in mano i pennelli, con l’intenzione di dipingere una serie di paesaggi su tela. Al desiderio di rivederlo dal vivo, si sommò, perciò, la voglia di poter ammirare il frutto di quell’operazione.
Sappiamo che le composizioni musicali di Dylan – come un manifesto politico di straordinario impatto emozionale – hanno alimentato una vertigine di terremoti generazionali contribuendo a far germogliare un universo di nuove istanze. Sappiamo anche, però, che il menestrello di Duluth ha sempre preferito andare anche oltre quel soffio di voce aspra e tormentata che ha influenzato generazioni di fan. Il codice Dylan, infatti, è composto anche da frammenti sparsi di un mélange degno di una pop art meno convenzionale e più intima.
Al MAXXI di Roma è possibile entrare in contatto proprio con questo suo aspetto. Curata da Shai Baitel, “Bob Dylan – Retrospectrum” appare come un affascinante on the road a bordo di un camper Volkswagen, nell’America che abbiamo imparato a conoscere attraverso le narrazioni di Allen Ginsberg, Jack Kerouac e Fernanda Pivano. Non a caso, è stato lo stesso Ginsberg, padre sommo della Beat Generation, a dichiarare commosso nel 1965, all’indomani dell’uscita del brano Like a rolling stone – in tempi in cui il Nobel fregiava esclusivamente gli scrittori, e non certo i cantautori – di quanto fosse straordinario ascoltare alla radio un pezzo della grande letteratura americana.
Alla maniera di Chronicles – la sua autobiografia – Bob Dylan ci racconta attraverso le cento opere d’arte esposte la sua attività creativa. Non versi in musica o prose folk ma pennellate sature e corpose su tela, disegni a inchiostro, pastello e carboncino, e una serie di sculture in ferro. Scorci urbani, grattacieli, ponti sospesi, ferrovie, stand di hot-dog, motel, aree di servizio, tralicci e cortili sono i grandi protagonisti della retrospettiva, insieme a quell’highway un po’ tortuosa, quasi infinita, che rivela in maniera spietatamente artistica le variegate pieghe della condizione umana e gli infiniti misteri della vita. È il ritmo lento la velocità dipinta da Bob Dylan. E le opere che compongono il piccolo ma immenso romanzo pittorico – esposto al MAXXI fino al 30 aprile – suonano come un invito a fermarsi, a tirare su gli occhi per vedere la realtà da altre prospettive, per allenarsi a giocare un nuovo match con la vita, cercando – possibilmente – di non barare più. Un’occasione irrinunciabile che documenta la trasformazione delle fonti e degli stili che hanno ispirato e influenzato nel corso degli anni Bob Dylan: il più straordinario canzoniere dei tempi moderni.