Biden non ha ancora annunciato di volere correre per un prossimo mandato, ma nel partito vorrebbero un volto dinamico, meno segnato dalla fatica del governare. In campo repubblicano, invece, l'ex presidente è costretto a rincorrere una creatura che lui stesso ha contribuito a nutrire. E Ron DeSantis, il governatore della Florida, viene da molti indicato come il candidato con più possibilità di vittoria
Il 5 novembre 2024, giorno delle presidenziali Usa, è ancora lontano. Eppure democratici e repubblicani si stanno già organizzando in vista dell’appuntamento. La campagna elettorale vera e propria scatterà dopo la prossima estate, ma le candidature si stanno delineando e i temi precisando. In campo democratico si attende la decisione di Joe Biden. Il presidente ha più volte alluso alla sua volontà di presentarsi nel 2024. Larghi settori del partito e dell’elettorato democratico preferirebbero un candidato diverso, più giovane e dinamico, meno segnato dalla fatica del governare. Fino a quando Biden non annuncerà la sua decisione, tra i democratici tutto resta comunque fermo. L’emergere di una candidatura alternativa a Biden, prima della decisione di Biden, sarebbe un’inaccettabile mancanza di rispetto nei suoi confronti. Molto più mosso il campo repubblicano, dove si preparano diverse discese in campo. Nikki Haley, ex ambasciatrice Usa all’Onu durante l’amministrazione Trump ed ex governatrice del South Carolina, è pronta ad annunciare la sua candidatura alla Casa Bianca il 15 febbraio a Charlesto e sarà la prima candidata repubblicana a sfidare il tycoon alle primarie. Poi si parla dell’attuale governatore del New Hampshire, Chris Sununu. Si parla di un senatore, ancora del South Carolina, Tim Scott. I due big della campagna repubblicana dovrebbero però essere indubitabilmente Donald Trump, l’unico ad aver già annunciato ufficialmente la partecipazione alle presidenziali 2024; e Ron DeSantis, il governatore della Florida, che molti indicano come il candidato con più possibilità di vittoria. Sia Trump che DeSantis nei giorni appena passati sono stati protagonisti di fatti ed eventi che danno un senso più chiaro alle loro candidature e anticipano uno scontro furibondo nel partito repubblicano.
New Hampshire e South Carolina. I primi comizi di Donald Trump – È successo nel week-end appena passato. Trump ha lasciato la residenza di Mar-a-Lago, è salito sul suo Boeing 757 ed è volato a far campagna elettorale. A Salem, New Hampshire, e Columbia, South Carolina, si sono tenuti i primi due eventi del “Trump Make America Great Again! 2024”. “Dicono che non faccio più comizi, che non faccio campagna elettorale, che ho perso il vecchio passo – ha detto l’ex presidente -. E invece sono qui, più arrabbiato e impegnato che mai”. La scelta dei due Stati non è casuale. New Hampshire e South Carolina sono in cima al calendario repubblicano per le primarie 2024. Gli eventi sono stati interessanti per diverse ragioni. Trump non ha scelto arene o palazzi dello sport dove ospitare migliaia di supporters. Forse perché, a questo stadio della campagna, teme di non suscitare i vecchi entusiasmi ed essere perseguitato negativamente dall’immagine degli spalti vuoti. Piuttosto, ha preferito occasioni più ristrette, di partito.
A Salem ha parlato al meeting annuale del partito repubblicano del New Hampshire. In South Carolina è apparso nell’edificio del Campidoglio locale. In entrambe le occasioni, ad ascoltarlo, c’erano poche centinaia di politici e attivisti. Il tentativo è stato quello di presentarsi ancora una volta come l’“uomo del destino”, il kingmaker, la scelta inevitabile per i conservatori Usa. Di Nikki Haley, l’ex governatrice del South Carolina, Trump ha detto: “Mi ha chiamato per dirmi che sta pensando a candidarsi”. Ha aggiunto, perfido: “Mi aveva assicurato che non lo avrebbe fatto, nel caso mi fossi ripresentato”; ma si è mostrato alla fine magnanimo: “Lo ho detto che deve pensarci”. Ben più sprezzante è stato il riferimento a Ron DeSantis, l’avversario più temibile. “L’ho fatto eleggere io. L’ho scelto io. Ed è stato sleale”, ha detto Trump. Nei suoi due primi eventi elettorali, l’ex presidente ha cercato di trasmettere il senso di un partito unito dietro la sua candidatura. In South Carolina si è presentato con a fianco il governatore dello Stato, Henry McMaster e il senatore Lindsey Graham. In realtà, il consenso di cui Trump gode non è così monolitico. Al comizio in South Carolina, mancavano per esempio il chairman del partito repubblicano e cinque deputati dello Stato. E settori ampi dei vertici repubblicani del New Hampshire stanno organizzando “Ron to the Rescue”, un super Pac che sostiene e finanzia la candidatura di DeSantis.
La corsa di Donald Trump alla nomination repubblicana 2024 appare dunque molto più accidentata di quanto lui voglia far credere. A differenza del 2016, Trump si trova davanti un partito che è molto più difficile da far implodere con appelli populistici, esasperazione dei conflitti, botte di antipolitica. Il partito repubblicano, in questi sette anni, è diventato un partito populistico e Trump è costretto a rincorrere una creatura che lui stesso ha contribuito a nutrire. Non è un caso che, proprio in New Hampshire e South Carolina, Trump abbia per la prima volta messo da parte i consueti lamenti sui brogli elettorali e si sia lanciato in invettive che sono parte integrante del bagaglio retorico del suo principale avversario, Ron DeSantis. Ha annunciato per esempio che, nel caso venga eletto, “eliminerà i finanziamenti per tutte quelle scuole che sostengono la teoria critica della razza e l’ideologia di sinistra del gender”. Un tema di cui proprio Ron DeSantis in questi mesi si è fatto paladino, come vedremo tra un momento, e che mostra le difficoltà attuali di Trump: abituato ad anticipare, a sparigliare le carte, ad andare all’attacco, costretto ora a inseguire e subire i colpi di chi riesce a essere più controverso di lui.
Race e gender. Le battaglie di Ron DeSantis – La fisionomia conservatrice del governatore della Florida era nota. Gli eventi di questi giorni – lo scontro sui curricula di studio afro-americani in Florida, i continui attacchi alla teoria critica della razza e alla “woke ideology” – hanno però segnato un salto di qualità e anticipano quello che potrebbe succedere nei mesi più infiammati della campagna presidenziale. La fortuna politica di Ron DeSantis è sempre dipesa dalla sua capacità di manovrare ed esaltare le questioni culturali: la religione, l’identità, il genere, l’appartenenza etnica e razziale. DeSantis è stato il campione della legge, cosiddetta “don’t say gay”, approvata in Florida a inizi 2022: quella che proibisce agli insegnanti delle scuole pubbliche dello Stato, fino alla terza elementare, anche solo di accennare in classe alle questioni omosessuali. Sono note le sue posizioni sui transgender: dal divieto per gli studenti transgender di usare i bagni delle scuole in accordo al loro sesso di scelta all’altro divieto, per le donne transgender, di competere nelle gare sportive femminili. Più di recente, DeSantis si è prodigato per negare l’assistenza sanitaria ai bambini della Florida con disforia di genere. Non meno nette le sue posizioni contro l’aborto. DeSantis ha firmato una legge che proibisce l’interruzione di gravidanza dopo le 15 settimane, anche in caso di stupro o incesto. Il governatore potrebbe però volere di più: un provvedimento che metta al bando ogni tipo di aborto dal momento in cui il battito del feto viene percepito, quindi intorno alle sei settimane. Quanto alla questione dell’immigrazione, DeSantis ha preso iniziative clamorose. Recentemente è finito sotto inchiesta per aver usato fondi pubblici, destinati al Covid, per pagare il biglietto aereo a decine di immigrati spediti polemicamente a Martha’s Vineyard, paradiso dei ricchi progressisti.
Insomma, questo politico vulcanico e intraprendente ha capito molto bene, come prima di lui Donald Trump, quanto i “social issues”, le questioni culturali, di identità e genere, siano diventati essenziali per buona parte dell’elettorato repubblicano. E su quelli ha insistito, con l’obiettivo di fare del suo Stato, la Florida, un paradiso di innovazione tecnologica e di opportunità economiche, con un sostrato culturale che è però quello del conservatorismo cristiano più rigido. A giudicare da sondaggi e risultati elettorali, ha avuto ragione. DeSantis gode di un livello di gradimento molto alto in Florida, ha vinto con facilità la rielezione a governatore e si prepara a entrare da favorito nella campagna elettorale per il 2024 (un sondaggio Usa Today dello scorso dicembre lo mostra avanti a Trump di ben 23 punti).
Una serie di recenti prese di posizione hanno mostrato un suo ulteriore irrigidimento ideologico. DeSantis ha sostenuto con entusiasmo il passaggio in Florida del cosiddetto “Stop the W.O.K.E. Act”, il provvedimento che vuole colpire il presunto indottrinamento dei più giovani in tema di razzismo. W.O.K.E. sta per “Wrong to Our Kids an Employees”, ed è secondo DeSantis e i repubblicani ciò che mina le relazioni razziali in America. Nelle scuole statunitensi si instillerebbe ai ragazzi bianchi, sin dalla più tenera età, un senso di colpa per il razzismo patito dai neri. Lo “Stop the W.O.K.E. Act” proibisce quindi agli insegnanti della Florida di alludere a fatti o teorie che possano far credere a uno studente “di essere personalmente responsabile di azioni commesse nel passato in tema di razza”. Si tratta di una norma confusa, di dubbia applicabilità e che ha un solo obiettivo: quello di dare minor visibilità, nelle aule scolastiche dello Stato, al passato bianco e razzista dell’America.
Alcuni giorni fa è partita la nuova crociata. L’amministrazione di DeSantis ha proibito l’insegnamento nelle scuole superiori della Florida di un corso avanzato in studi afro-americani. Il corso, a giudizio dell’amministrazione, “promuove l’idea che la moderna società americana opprime i neri, altre minoranze e le donne, ha un indirizzo in Black Queer Studies che questa amministrazione ritiene inappropriato e usa articoli accademici di critici del capitalismo”. “Vogliamo l’educazione, non l’indottrinamento”, ha spiegato DeSantis, suscitando l’entusiasmo di chi ritiene che la “teoria critica della razza”, l’idea di un razzismo profondo, inerente al sistema americano, sia ciò che mina i valori e le istituzioni degli Stati Uniti. Alcuni, tra gli stessi alleati di DeSantis, sono però più dubbiosi. Per vincere le presidenziali 2024, DeSantis ha bisogno di una parte, anche minima, di voto nero e delle minoranze. Le recenti prese di posizione sembrano invece fatte per allarmare e indignare larghi settori di queste comunità. Per il momento, il governatore va però avanti per la sua strada, incurante delle polemiche suscitate, memore di come le sparate su razza, genere, identità aiutarono Trump nella campagna elettorale del 2016. La sua scommessa per il 2024 è in fondo la stessa. Non aver paura di scoperchiare la pentola di antichi risentimenti e ferite. Continuare a soffiare su conflitti razziali e scontri identitari. Farsi paladino di un’America bianca che non deve chiedere scusa su niente e a nessuno.