Eureka, ecco che dopo il roboante silenzio nella campagna elettorale irrompe l’arresto di “U siccu”, al secolo Matteo Messina Denaro e come per incanto l’argomento mafia ritorna nei salotti televisivi. L’arresto ha dato la stura a leoni da tastiera, complottisti e cultori di teoremi, di dire minkiate e solo per oscurare l’operato del Ros. Intanto io dico grazie Ros! Lo scopo di questo scritto è far riflettere sui momenti bui e funesti, che attraversò la città di Palermo negli anni 80/90. Penso, che in quegli anni sia prevalsa la scarsa attenzione al fenomeno mafioso, condita anche da negligenza, indifferenza e incompetenza, che originarono omicidi e stragi, ascrivibili ad una sorta di responsabilità oggettiva, sia di singoli che in generale dallo Stato.
Per far comprendere il mio assunto, cito taluni episodi.
Omicidio Pio La Torre e Rosario Di Salvo (30 aprile 1982). Quel giorno ero di pattuglia e mi fiondai sul luogo del duplice omicidio. Lì incontrai un mio collega della Mobile, che mi raccontò di aver visto dal balcone di casa sua, un latitante killer di mafia che sostava all’inizio della strada dove poi avvenne l’attentato. Costui era accanto ad una grossa moto. Nel frattempo giunsero sul luogo Chinnici, Falcone e Cassarà, oltre al dirigente della “Omicidi” Accordino. Ergo se il collega avesse fatto la telefonata in ufficio, l’evento non si sarebbe verificato. Dopo l’omicidio Dalla Chiesa (ahimè vidi i corpi martoriai dai proiettili) negli uffici della Mobile si sparse la voce che nei giorni precedenti era stato visto un uomo accanto a una moto sostare innanzi la prefettura.
Strage Chinnici (29 luglio 1983). Alcuni giorni prima della strage, un funzionario di polizia ricevette una telefonata da un cittadino libanese, che l’informava di un imminente attentato con l’utilizzo di un’autobomba da parte di mafiosi. A nessuno venne in mente di mettere in quarantena il dottor Chinnici. Giova rimarcare che Chinnici aveva da poco istituito il Pool antimafia e che di seguito a investigazioni congiunte tra noi poliziotti e carabinieri, aveva spiccato 162 mandati di cattura contro uomini di Cosa nostra. E badate bene, che per la prima volta Michele Greco “il papa” (da me conosciuto da ragazzo) veniva colpito da mandato di cattura, nonostante fosse titolare di porto d’armi.
A strage avvenuta, il libanese veniva identificato per Bou Chebel Ghassan e Ninni Cassarà mi affidò l’incarico di rintracciarlo, cosa che feci trovandolo presso l’Hotel Zagarella. Lo accompagnai in ufficio e dopo l’interrogatorio, in nottata fu dichiarato in arresto. Nel caso di specie, la strage di via Pipitone Federico, poteva essere evitata, bastava predisporre massima tutela nei confronti di Chinnici.
Dopo la strage di Capaci (23 maggio 1992), un pentito coautore, ci raccontò, che giorni prima dell’attentato, era andato insieme ad altri mafiosi in contrada Rebuttone – territorio di Altofonte – per fare esplodere un tratto di strada col tritolo. In buona sostanza fu la “prova dell’attentato di Capaci”. Infatti, dopo aver imbottito la cunetta, la fecero esplodere e subito dopo ripristinarono il manto stradale, asfaltandolo. Ebbene, nessuno segnalò, nemmeno in forma anonima, l’avvenuta esplosione. Il sito non era affatto disabitato. Io fui incaricato di svolgere le indagini per localizzare il luogo “dell’esperimento”. Dal sopralluogo localizzai il punto esatto dell’esplosione.
La strage di via D’Amelio (19 luglio 1992) mi colpì profondamente: avevo trascorso insieme a Borsellino l’ultimo venerdì della sua vita. Era il 17 luglio 1992. Paolo Borsellino non era amato da alcuni suoi stessi colleghi, figuriamoci dai mafiosi. Del resto basta leggere il diario di Chinnici per capire che nemmeno lui nutriva fiducia verso alcuni suoi colleghi. E che dire del “Corvo” di Palermo su Falcone? Borsellino fu abbandonato al suo destino, divenne facile preda di mafiosi e non. Un uomo isolato, un “cadavere che cammina” come aveva detto Ninni Cassarà, allorquando vide il corpo senza vita di Beppe Montana.
Tralascio di proposito la storia del mancato divieto di sosta in via D’Amelio, giacché la mafia l’avrebbe fatto altrove. Invece, occorrerebbe capire come mai non fu imposto a Borsellino di vivere in una struttura militare, come era giusto fare anche con Chinnici? Purtroppo la strage di Chinnici e di Falcone non insegnò nulla. Eppure, Borsellino aveva fatto gravi dichiarazioni pubbliche in ordine alla strage di Capaci. E il procuratore Giammanco, che si rifiutava di conferirgli la delega per interrogare il neo pentito Gaspare Mutolo, ne vogliamo parlare? Intanto, io nascondevo in un anonimo appartamento romano Mutolo e ogni giorno attendevo l’ordine di portarlo innanzi a Borsellino, cosa che avvenne il primo luglio.
Dopo la strage di via D’Amelio, a Palermo fu aperta una “sartoria”, col compito di confezionare un solo abito per vestire il pupo Scarantino. Noi della DIA, non fummo interessati alle indagini su via D’Amelio, eravamo impegnati a tempo pieno su Capaci. E quando rimembro tutta la mia attività di contrasto a Cosa nostra, mi assale una rabbia che difficilmente riesco a trattenere.
Nei primi anni 80, quando la mattanza voluta da Riina –per favore non ditemi che fu guerra di mafia, basta con questa stupidaggine – noi poliziotti e carabinieri eravamo soli, soli e soli. Provate ad immaginare cinque amici più che colleghi di lavoro, ammazzati per un imbelle Stato o vedere carabinieri trucidati come successe a me, eppoi vediamo se riuscirete a sopportare la prosopopea di tanti soloni esperti di mafia o ascoltare coloro che siedono negli ambulacri del potere romano.
[Nella foto in evidenza, agenti della Dia presso la villa di Giuseppe Monticciolo, carceriere del piccolo Giuseppe Di Matteo. Foto di proprietà di Pippo Giordano, vietata la riproduzione]